Rivista di Diritto SocietarioISSN 1972-9243 / EISSN 2421-7166
G. Giappichelli Editore

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Socio e Società nella società per azioni (in crisi): dal diritto di opzione al bail-in (con notazioni sulle ragioni di Mazzarò) (di Antonio Blandini, Oreste De Cicco, Enrico Locascio Aliberti)


SOMMARIO:

1. Socio e società nella crisi d'impresa: le ragioni di Mazzarò - 2. I soci sono residual claimant: verso un (nuovo) istituzionalismo? - 3. Diritto di opzione, perdita integrale del capitale e casi di esclusione ex art. 2441 c.c.: il primo banco di prova - 4. La società per azioni come “fatto sociale” nella crisi di impresa: azzeramento del valore della partecipazione e relative conseguenze per il socio - 5. La posizione dei soci nel concordato fallimentare e preventivo e la (ulteriore) novità delle proposte concorrenti - 6. L’aumento di capitale nel concordato preventivo con proposta concorrente ed il superamento degli organi sociali - 7. La posizione dei soci nella crisi dell’impresa bancaria: dal burden sharing al bail-in - 8. Conclusioni - NOTE


1. Socio e società nella crisi d'impresa: le ragioni di Mazzarò

La individuazione dei termini esatti dei diritti dei soci nella crisi 1 costituisce uno snodo particolarmente delicato, ma, al contempo, di importanza anche sistematica enorme, specie in considerazione degli interventi normativi più recenti, nei quali vi è già chi intravede “un vero e proprio ‘scardinamento’ di pietre miliari nell’architettura delle imprese societarie” 2. Con riferimento al tema del capitale sociale, ad esempio, se già era sorta negli ultimi anni una vivace discussione sulle relative funzioni 3, le novelle intercorse nei tempi recenti hanno condotto autorevole dottrina 4 a disegnare una “parabola” del capitale sociale, almeno nella società a responsabilità limitata, oggi da più parti visto alla stregua di “ferro vecchio”. La key question, dal punto di vista di chi scrive, riguarda però un aspetto a ciò soltanto tangenziale: in presenza di chances di rifioritura di una impresa societaria in crisi, che determinino il sacrificio anche massimo in capo ai soci, quale percorso può e deve essere intrapreso? È fuori di dubbio che, dal punto di vista egoistico del socio, una volta che si sia realizzata una perdita integrale del capitale sociale, ed egli non partecipi (per scelta sua o di altri) all’aumento necessario a ripristinare i parametri di legge, meglio sarebbe dare corso al procedimento di liquidazione. Nel caso peggiore, difatti, per il socio (che non corra altri rischi nella liquidazione volontaria o coattiva dell’im­presa societaria), l’esito sarebbe identico; nel caso migliore, lo stesso potrebbe raggranellare, per qualche ragione anche del tutto occasionale, una pur minima somma di denaro: laddove anche pochissimo è meglio di nulla. Questo percorso argomentativo assomiglia però a quello di Mazzarò: quando, nella penna di Verga, “gli dissero che era tempo di lasciare la sua roba, per pensare all’anima, uscì nel cortile come un pazzo, barcollando, e andava ammazzando a colpi di bastone le sue anitre e i suoi tacchini, e strillava: – Roba mia, vientene con me! –”. Certo, è paragone arditissimo – e per più versi, qualificabile come infelice – considerare l’impresa societaria “la roba”, gli stakeholder, o più ampiamente il mercato, [continua ..]


2. I soci sono residual claimant: verso un (nuovo) istituzionalismo?

Il socio, dunque, non può essere qualificato come proprietario dell’impresa, bensì soltanto delle azioni 23. Queste, secondo la nota elaborazione di Ascarelli, costituiscono “beni di secondo grado” 24, rappresentativi di diritti su altri beni, primari, costitutivi del patrimonio dell’impresa societaria, e che, proprio in ragione della destinazione loro impressa 25, come della personalità giuridica riconosciuta all’ente, non appartengono ai soci, ma alla società 26. Nella raccolta di mezzi utili alla conduzione dell’impresa societaria, in una combinazione tra risorse proprie e di terzi che spesso registra, anche nel più virtuoso dei casi, una netta prevalenza delle seconde rispetto alle prime 27, il socio è colui che, finanziando l’impresa, ha scelto di farlo partecipando alla formazione del capitale di rischio. In questi sensi, dunque, prendendo il caso della società per azioni, la titolarità delle azioni si “limita” a conferire il c.d. status socii 28, espressione di sintesi delle situazioni giuridiche soggettive, attive e passive, che da quella titolarità discendono 29, ma non per ciò attribuisce piena signoria sull’impresa. Con queste parole non si vuole sminuire il ruolo del socio. L’azionista resta ovviamente il propulsore dell’investimento, atteso che, fatti salvi taluni casi certamente residuali 30, la volontarietà dell’iniziativa imprenditoriale è elemento indefettibile per la nascita della società. Tuttavia, ciò che interessa rimarcare, è che più che proprietari dell’impresa, i soci sono, secondo un’espressione ormai nota, i residual claimant, la cui pretesa è limitata a ciò che residua dopo che siano stati soddisfatti i creditori: tali perché hanno apportato risorse a titolo di capitale di credito 31. Senza dire che a partire dalla riforma societaria del 2003, che ha delineato nuovi strumenti finanziari partecipativi ovvero nuove categorie di azioni – si pensi, a mero titolo esemplificativo, a quelle postergate nelle perdite –, si è ulteriormente inciso su questi aspetti, ampliando le tecniche utilizzabili per il finanziamento del­l’attività di impresa della società per azioni 32. Il che, se per un verso consente [continua ..]


3. Diritto di opzione, perdita integrale del capitale e casi di esclusione ex art. 2441 c.c.: il primo banco di prova

Un momento centrale di questo iter argomentativo si rinviene, come è ovvio, nella disciplina dell’aumento del capitale sociale e del diritto d’opzione, che l’art. 2441 c.c. dispone in favore dei soci. Non è questa la sede per approfondire queste tematiche così come le radici sulle quali esse fondano e in argomento, d’altra parte, tanto, e tanto bene, autorevole dottrina ha avuto occasione di scrivere 38. Certo è che l’aumento di capitale costituisce l’esito di una decisione assembleare, anche nelle ipotesi di maggiore delicatezza della vita societaria, e persino quando il capitale è integralmente perduto. E questo è un fatto. Altri fatti sono: i) che il combinato disposto degli artt. 2447 e 2484 c.c. fa sì che, qualora i soci non deliberino l’au­mento di capitale in presenza di una perdita di oltre un terzo dello stesso, che ne determini la riduzione al di sotto del minimo legale, la società si sciolga; ii) che riduzione del capitale anche al di sotto del minimo legale, ed anche al di sotto dello zero, non determina, di per sé sola, crisi dell’impresa, e, comunque, non determina certamente, sempre in una considerazione atomistica del fenomeno, insolvenza. Resta infatti pur sempre possibile che vi sia, pure all’esito di questi eventi “contabili”, un patrimonio “sostanziale” tale da consentire l’integrale soddisfazione dei creditori, o che, in sede di liquidazione, l’adozione di criteri valutativi diversi da quelli di funzionamento ed il progetto di liquidazione concretamente posto in atto conducano ad esiti positivi della situazione dell’impresa. Dunque, nel regime ordinario, la sopravvivenza della società resta legata ad una deliberazione assembleare. In questi sensi, il dettato normativo qui riassunto rimane conforme a quanto stabilito dalla disciplina comunitaria in materia, e, in particolare, dagli artt. 29 e 34 della Direttiva 2012/30/UE 39, che, in modo univoco, prescrivono che gli aumenti e le riduzioni (eccettuate quelle disposte con decisioni giudiziarie) di capitale siano decisi dall’assemblea; così come dall’art. 33 della medesima Direttiva, che prevede che, nel caso di aumento di capitale sottoscritto mediante conferimenti in denaro, le azioni debbano essere offerte in opzione agli azionisti in proporzione della quota di capitale [continua ..]


4. La società per azioni come “fatto sociale” nella crisi di impresa: azzeramento del valore della partecipazione e relative conseguenze per il socio

Sennonché, se questa impostazione pare ovvia e indiscutibile nella fase fisiologica dell’impresa, in un momento cioè in cui non si ravvisa una situazione talmente grave da porre in dubbio la stessa possibilità che l’impresa societaria soddisfi le proprie obbligazioni, così non è quando lo scenario da fisiologico diviene patologico. Laddove cioè la crisi, che prima si è detto essere solo eventuale, venga acclarata. Ora, deve premettersi che le società, in particolare quelle di medio-grandi dimensioni, il cui dissesto ha maggiori conseguenze sul contesto economico-sociale in cui operano, ancorché nate da un atto di autonomia privata, una volta introdotte sul mercato, non rappresentano più un mero “fatto proprio” dei soci, divenendo invece un “fatto sociale”. Come emerge palesemente dagli interventi operati, in particolare, alle discipline in materia di crisi generale (legge fallimentare) e speciale (testo unico bancario) nell’ultimo decennio (anzi, come si riferirà di qui a un momento, soprattutto nel corso dell’ultimo anno), l’impresa, quale fenomeno produttivo oggettivamente considerato, costituisce un valore da tutelare in quanto tale, e, in caso di crisi, la sua conservazione è orientata non già agli interessi dell’imprenditore, bensì a quelli di tutti coloro i quali siano coinvolti nel dissesto 41. Insomma, come bene è stato detto, appare corretto se non addirittura ineludibile che “gli stessi stakeholder acquisiscano un diritto di voice nella gestione della crisi” 42. Ciò perché, alla luce di quanto riferito, a fare da contraltare all’interesse del socio non è più l’interesse sociale, ma l’interesse, per così dire, del mercato. È in tale ottica che si legittimano interventi sul capitale 43, che, pur destinati ad incidere sulla struttura patrimoniale e finanziaria della società, prescindono totalmente dalla volontà e dal consenso dei soci. La ratio comune di tali interventi, per quanto frutto di fattispecie profondamente diverse tra loro, come di seguito sarà pur succintamente evidenziato, si ritrova nell’intento di porre in essere una rivoluzione copernicana rispetto alla premessa, per lungo tempo considerata indefettibile, che guarda al socio come [continua ..]


5. La posizione dei soci nel concordato fallimentare e preventivo e la (ulteriore) novità delle proposte concorrenti

Benvero, che, nella crisi, per quanto di tale termine si faccia un uso del tutto generale e atecnico, non riferito a questa o quella procedura, i soci non dispongano di un potere assoluto e incontrastato di decidere in ordine al compimento di operazioni di ristrutturazione societaria rivolte al suo superamento, emerge innanzitutto proprio laddove si guardi alla disciplina dei concordati, preventivo e fallimentare. In entrambi i casi si consente difatti la partecipazione al risanamento dell’im­pre­sa di terzi che fino ad allora vi erano stati estranei. Anzi, giacché l’art. 124, 1° comma, legge fall. legittima il fallito a proporre un concordato fallimentare “dopo il decorso di sei mesi dalla dichiarazione di fallimento e purché non siano decorsi due anni dal decreto che rende esecutivo lo stato passivo” – scelta evidentemente ispirata dall’esigenza di responsabilizzare il debitore e di evitare istanze di auto-fallimento al solo scopo di proporre concordati fallimentari solo per lui convenienti – non sembra scorretto rinvenire un favor del legislatore nei confronti del concordato proposto dal “terzo” 46. Ciò che testimonia come già da tempo il legislatore guardi senza più riserve ad interventi di ristrutturazione dell’impresa, che, pur incidendo sull’assetto organizzativo, proprietario e finanziario della società, e, soprattutto, pur provenendo da un terzo, potenzialmente contro la volontà del titolare formale del patrimonio, siano idonei a conciliare l’esigenza del soddisfacimento dei creditori con quella del salvataggio dell’azienda 47. Profili di ancora maggiore interesse, e dai quali trarre ulteriori spunti di riflessione in relazione al discorso in parola, si rinvengono poi nel concordato preventivo. Il legislatore, fin dal suo primo intervento riformatore, flessibilizzando oltremodo il contenuto in cui il piano di concordato può articolarsi, fino a prevedere la possibilità di attribuire partecipazioni ai creditori, ha affidato a questi un ruolo di assoluto rilievo e mostrato degli stessi una considerazione ben diversa rispetto al passato. Peraltro, con l’individuazione, ai sensi dell’art. 152, 2° comma, lett. b), legge fall., della competenza a decidere della presentazione della domanda di concordato in capo all’organo amministrativo piuttosto che [continua ..]


6. L’aumento di capitale nel concordato preventivo con proposta concorrente ed il superamento degli organi sociali

La conclusione risulta avallata anche da un ulteriore dato normativo. Ai soci è richiesto, come detto, un comportamento attivo e collaborativo, che si concretizza nell’obbligazione di dare esecuzione alla proposta. L’aumento di capitale sociale, quindi, pur se destinato ad essere sottoscritto da terzi, continua, conformemente a quanto previsto dalla Direttiva 2012/30/UE, a dover essere deliberato dall’as­sem­blea straordinaria della società in crisi. Tuttavia, il legislatore introduce un correttivo, e proprio a tutela dei concorrenti, per l’eventualità che il debitore non dia esecuzione alla proposta: è difatti previsto – cfr. art. 185 legge fall. – che, nel caso in cui sia rilevato che il debitore non sta provvedendo al compimento degli atti necessari a dare esecuzione alla proposta o ne sta ritardando il compimento, il commissario giudiziale può essere autorizzato dal Tribunale a provvedere in luogo del debitore al compimento degli atti a tanto necessari. Più in dettaglio, l’art. 185, 6° comma, legge fall. sancisce, ove il debitore sia una società di capitali, la liceità di un aumento di capitale eterodiretto: nel caso in cui la proposta concorrente preveda un aumento del capitale sociale, e vi sia ostruzionismo o inattività da parte degli organi sociali, il Tribunale, revocato l’organo amministrativo, può nominare un amministratore giudiziario, attribuendogli il potere di convocare l’assemblea straordinaria dei soci avente ad oggetto la relativa delibera. Nel caso in cui gli amministratori non convochino l’assemblea ovvero non venga approvata la deliberazione, l’amministratore giudiziario si sostituisce ai soci e dà esecuzione alla proposta di concordato. I soci non hanno in tale evenienza alcun potere di veto, salva la possibilità di presentare opposizione all’omologa­zione della proposta concorrente. Occorre tuttavia precisare che – differentemente, come si dirà, da quanto accade nelle imprese bancarie – nel concordato con una proposta concorrente non si verifica una ablazione tout court della partecipazione societaria. La perdita del controllo sull’impresa da parte dei soci originari deriva infatti dall’aumento di capitale sottoscritto dai terzi e dalla conseguente diluizione della loro quota di capitale – ove vi sia ancora del [continua ..]


7. La posizione dei soci nella crisi dell’impresa bancaria: dal burden sharing al bail-in

Il superamento della centralità del socio nella crisi dell’impresa, con la relativa incidenza sulla struttura societaria e sulle partecipazioni e, in ultima istanza, sugli stessi diritti dei soci, trova conferma nell’ambito della disciplina di recente introdotta, invero sicuramente ben più drastica di quella prevista per le società di diritto comune, relativa alla gestione delle crisi bancarie. Ci si riferisce alla Direttiva 2014/59/UE, recepita con il d.lgs. 16 novembre 2015, n. 180, che ha introdotto in Italia, tra l’altro, una fattispecie sino ad oggi ignota, ovvero il c.d. burden sharing, da considerarsi isolatamente o nell’ambito del più complesso e articolato, potremmo dire anche famigerato, c.d. bail-in 61. Aldilà delle enormi differenze tra i due istituti, la peculiarità comune che assume rilevanza centrale ai fini qui in esame è il potere/dovere dell’autorità amministrativa – in Italia, la Banca d’Italia –, ai sensi dell’art. 27, di procedere ad una riduzione o conversione delle azioni, delle altre partecipazioni e degli strumenti di capitale di una banca, nelle ipotesi di crisi previste dal decreto. Tale operazione, che come chiaramente statuisce l’art. 29, 3° comma, è finalizzata a “coprire le perdite e assicurare il rispetto dei requisiti prudenziali”, può avvenire isolatamente, o, ove necessario, essere inserita nell’ambito delle misure di risoluzione, all’esito dell’apertura di una apposita procedura a carico della stessa banca. In tal caso, ai sensi dell’art. 60, 1° comma, lett. d), ove ne ricorrano i presupposti, l’Autorità di Risoluzione ha il potere/dovere di “ridurre o azzerare il valore nominale di azioni o di altre partecipazioni emesse dal­l’ente sottoposto a risoluzione, nonché annullare le azioni o i titoli”: la svalutazione o l’annullamento delle azioni – il cui valore reale si è ridotto per effetto delle perdite di capitale – costituisce il primo passo per il risanamento di una banca. Risanamento che si potrà articolare, ove possibile, mediante una ricapitalizzazione comunque “interna” o mediante un altro dei provvedimenti possibili all’esito della sottoposizione della banca a risoluzione. In ogni caso, occorre rispettare quanto stabilito [continua ..]


8. Conclusioni

Il percorso, anche normativo, sin qui tratteggiato dimostra quanto ampio sia il divario tra l’antico dibattito, che tanto aveva fatto discutere la dottrina commercialistica, sulla riduzione a zero e conseguente reintegrazione del capitale sociale, ed il complesso disciplinare oggi vigente. Tuttavia, forse, è solo il velo dell’ipocrisia che è stato tolto, non la sostanza dei ragionamenti che da allora già si portavano avanti. Non va dimenticato, in argomento, che anche prima della riforma societaria del 2003 si era giunti pressoché unanimemente a ritenere applicabile la disciplina della riduzione del capitale per perdite superiori al terzo anche ai casi di riduzione totale del capitale 69. Seppure con l’influenza della dottrina dei diritti individuali del socio – che, oltre ad avere una sicura e autorevolissima costruzione dogmatica, al­l’epoca godeva anche di più di un riscontro normativo –, era già da tempo oggetto di discussione, seppure con una prospettiva negativa, la possibilità di deliberare in questa ipotesi un aumento di capitale con esclusione del diritto di opzione 70. Il motivo principale che spingeva la dottrina e la giurisprudenza a negare la liceità di una simile operazione risiedeva nella constatazione che essa avrebbe comportato la espulsione del socio dalla compagine sociale. Come si spera di avere dimostrato, oggi, anche alla luce delle indicazioni di percorso fornite dalle novelle succedutesi a far data appunto dalla riforma societaria del 2003, questa operazione deve essere ritenuta pienamente legittima: sarà ben possibile che, in una ricapitalizzazione, i soci originari siano chiamati a sopportare il sacrificio massimo, tradotto in termini di estromissione dalla società. Non è però corretto, in questo ambito, parlare di espropriazione, né tanto meno di lesione del diritto di proprietà, alla luce del fatto che, ove l’operazione porti ad una totale ablazione del diritto partecipativo, necessariamente la cancellazione riguarderà azioni il cui valore è già pari a zero. Né si può ipotizzare un indennizzo ai soci estromessi per aver negato loro la possibilità di esercitare il diritto di opzione – e questa considerazione vale per tutte le ipotesi ripercorse in questo lavoro –, poiché escludere il diritto di opzione e, in altri [continua ..]


NOTE