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Socio e Società nella società per azioni (in crisi): dal diritto di opzione al bail-in (con notazioni sulle ragioni di Mazzarò)

Antonio Blandini, Oreste De Cicco, Enrico Locascio Aliberti

Sommario:

1. Socio e società nella crisi d'impresa: le ragioni di Mazzarò - 2. I soci sono residual claimant: verso un (nuovo) istituzionalismo? - 3. Diritto di opzione, perdita integrale del capitale e casi di esclusione ex art. 2441 c.c.: il primo banco di prova - 4. La società per azioni come “fatto sociale” nella crisi di impresa: azzeramento del valore della partecipazione e relative conseguenze per il socio - 5. La posizione dei soci nel concordato fallimentare e preventivo e la (ulteriore) novità delle proposte concorrenti - 6. L’aumento di capitale nel concordato preventivo con proposta concorrente ed il superamento degli organi sociali - 7. La posizione dei soci nella crisi dell’impresa bancaria: dal burden sharing al bail-in - 8. Conclusioni - NOTE


1. Socio e società nella crisi d'impresa: le ragioni di Mazzarò

La individuazione dei termini esatti dei diritti dei soci nella crisi 1 costituisce uno snodo particolarmente delicato, ma, al contempo, di importanza anche sistematica enorme, specie in considerazione degli interventi normativi più recenti, nei quali vi è già chi intravede “un vero e proprio ‘scardinamento’ di pietre miliari nell’architettura delle imprese societarie” 2. Con riferimento al tema del capitale sociale, ad esempio, se già era sorta negli ultimi anni una vivace discussione sulle relative funzioni 3, le novelle intercorse nei tempi recenti hanno condotto autorevole dottrina 4 a disegnare una “parabola” del capitale sociale, almeno nella società a responsabilità limitata, oggi da più parti visto alla stregua di “ferro vecchio”. La key question, dal punto di vista di chi scrive, riguarda però un aspetto a ciò soltanto tangenziale: in presenza di chances di rifioritura di una impresa societaria in crisi, che determinino il sacrificio anche massimo in capo ai soci, quale percorso può e deve essere intrapreso? È fuori di dubbio che, dal punto di vista egoistico del socio, una volta che si sia realizzata una perdita integrale del capitale sociale, ed egli non partecipi (per scelta sua o di altri) all’aumento necessario a ripristinare i parametri di legge, meglio sarebbe dare corso al [continua ..]

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2. I soci sono residual claimant: verso un (nuovo) istituzionalismo?

Il socio, dunque, non può essere qualificato come proprietario dell’impresa, bensì soltanto delle azioni 23. Queste, secondo la nota elaborazione di Ascarelli, costituiscono “beni di secondo grado” 24, rappresentativi di diritti su altri beni, primari, costitutivi del patrimonio dell’impresa societaria, e che, proprio in ragione della destinazione loro impressa 25, come della personalità giuridica riconosciuta all’ente, non appartengono ai soci, ma alla società 26. Nella raccolta di mezzi utili alla conduzione dell’impresa societaria, in una combinazione tra risorse proprie e di terzi che spesso registra, anche nel più virtuoso dei casi, una netta prevalenza delle seconde rispetto alle prime 27, il socio è colui che, finanziando l’impresa, ha scelto di farlo partecipando alla formazione del capitale di rischio. In questi sensi, dunque, prendendo il caso della società per azioni, la titolarità delle azioni si “limita” a conferire il c.d. status socii 28, espressione di sintesi delle situazioni giuridiche soggettive, attive e passive, che da quella titolarità discendono 29, ma non per ciò attribuisce piena signoria sull’impresa. Con queste parole non si vuole sminuire il ruolo del socio. L’azionista resta ovviamente il propulsore dell’investimento, atteso che, fatti salvi taluni casi [continua ..]

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3. Diritto di opzione, perdita integrale del capitale e casi di esclusione ex art. 2441 c.c.: il primo banco di prova

Un momento centrale di questo iter argomentativo si rinviene, come è ovvio, nella disciplina dell’aumento del capitale sociale e del diritto d’opzione, che l’art. 2441 c.c. dispone in favore dei soci. Non è questa la sede per approfondire queste tematiche così come le radici sulle quali esse fondano e in argomento, d’altra parte, tanto, e tanto bene, autorevole dottrina ha avuto occasione di scrivere 38. Certo è che l’aumento di capitale costituisce l’esito di una decisione assembleare, anche nelle ipotesi di maggiore delicatezza della vita societaria, e persino quando il capitale è integralmente perduto. E questo è un fatto. Altri fatti sono: i) che il combinato disposto degli artt. 2447 e 2484 c.c. fa sì che, qualora i soci non deliberino l’au­mento di capitale in presenza di una perdita di oltre un terzo dello stesso, che ne determini la riduzione al di sotto del minimo legale, la società si sciolga; ii) che riduzione del capitale anche al di sotto del minimo legale, ed anche al di sotto dello zero, non determina, di per sé sola, crisi dell’impresa, e, comunque, non determina certamente, sempre in una considerazione atomistica del fenomeno, insolvenza. Resta infatti pur sempre possibile che vi sia, pure all’esito di questi eventi “contabili”, un patrimonio “sostanziale” tale da consentire l’integrale [continua ..]

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4. La società per azioni come “fatto sociale” nella crisi di impresa: azzeramento del valore della partecipazione e relative conseguenze per il socio

Sennonché, se questa impostazione pare ovvia e indiscutibile nella fase fisiologica dell’impresa, in un momento cioè in cui non si ravvisa una situazione talmente grave da porre in dubbio la stessa possibilità che l’impresa societaria soddisfi le proprie obbligazioni, così non è quando lo scenario da fisiologico diviene patologico. Laddove cioè la crisi, che prima si è detto essere solo eventuale, venga acclarata. Ora, deve premettersi che le società, in particolare quelle di medio-grandi dimensioni, il cui dissesto ha maggiori conseguenze sul contesto economico-sociale in cui operano, ancorché nate da un atto di autonomia privata, una volta introdotte sul mercato, non rappresentano più un mero “fatto proprio” dei soci, divenendo invece un “fatto sociale”. Come emerge palesemente dagli interventi operati, in particolare, alle discipline in materia di crisi generale (legge fallimentare) e speciale (testo unico bancario) nell’ultimo decennio (anzi, come si riferirà di qui a un momento, soprattutto nel corso dell’ultimo anno), l’impresa, quale fenomeno produttivo oggettivamente considerato, costituisce un valore da tutelare in quanto tale, e, in caso di crisi, la sua conservazione è orientata non già agli interessi dell’imprenditore, bensì a quelli di tutti coloro i quali siano coinvolti nel dissesto 41. [continua ..]

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5. La posizione dei soci nel concordato fallimentare e preventivo e la (ulteriore) novità delle proposte concorrenti

Benvero, che, nella crisi, per quanto di tale termine si faccia un uso del tutto generale e atecnico, non riferito a questa o quella procedura, i soci non dispongano di un potere assoluto e incontrastato di decidere in ordine al compimento di operazioni di ristrutturazione societaria rivolte al suo superamento, emerge innanzitutto proprio laddove si guardi alla disciplina dei concordati, preventivo e fallimentare. In entrambi i casi si consente difatti la partecipazione al risanamento dell’im­pre­sa di terzi che fino ad allora vi erano stati estranei. Anzi, giacché l’art. 124, 1° comma, legge fall. legittima il fallito a proporre un concordato fallimentare “dopo il decorso di sei mesi dalla dichiarazione di fallimento e purché non siano decorsi due anni dal decreto che rende esecutivo lo stato passivo” – scelta evidentemente ispirata dall’esigenza di responsabilizzare il debitore e di evitare istanze di auto-fallimento al solo scopo di proporre concordati fallimentari solo per lui convenienti – non sembra scorretto rinvenire un favor del legislatore nei confronti del concordato proposto dal “terzo” 46. Ciò che testimonia come già da tempo il legislatore guardi senza più riserve ad interventi di ristrutturazione dell’impresa, che, pur incidendo sull’assetto organizzativo, proprietario e finanziario della società, e, soprattutto, pur [continua ..]

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6. L’aumento di capitale nel concordato preventivo con proposta concorrente ed il superamento degli organi sociali

La conclusione risulta avallata anche da un ulteriore dato normativo. Ai soci è richiesto, come detto, un comportamento attivo e collaborativo, che si concretizza nell’obbligazione di dare esecuzione alla proposta. L’aumento di capitale sociale, quindi, pur se destinato ad essere sottoscritto da terzi, continua, conformemente a quanto previsto dalla Direttiva 2012/30/UE, a dover essere deliberato dall’as­sem­blea straordinaria della società in crisi. Tuttavia, il legislatore introduce un correttivo, e proprio a tutela dei concorrenti, per l’eventualità che il debitore non dia esecuzione alla proposta: è difatti previsto – cfr. art. 185 legge fall. – che, nel caso in cui sia rilevato che il debitore non sta provvedendo al compimento degli atti necessari a dare esecuzione alla proposta o ne sta ritardando il compimento, il commissario giudiziale può essere autorizzato dal Tribunale a provvedere in luogo del debitore al compimento degli atti a tanto necessari. Più in dettaglio, l’art. 185, 6° comma, legge fall. sancisce, ove il debitore sia una società di capitali, la liceità di un aumento di capitale eterodiretto: nel caso in cui la proposta concorrente preveda un aumento del capitale sociale, e vi sia ostruzionismo o inattività da parte degli organi sociali, il Tribunale, revocato l’organo amministrativo, può nominare un amministratore [continua ..]

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7. La posizione dei soci nella crisi dell’impresa bancaria: dal burden sharing al bail-in

Il superamento della centralità del socio nella crisi dell’impresa, con la relativa incidenza sulla struttura societaria e sulle partecipazioni e, in ultima istanza, sugli stessi diritti dei soci, trova conferma nell’ambito della disciplina di recente introdotta, invero sicuramente ben più drastica di quella prevista per le società di diritto comune, relativa alla gestione delle crisi bancarie. Ci si riferisce alla Direttiva 2014/59/UE, recepita con il d.lgs. 16 novembre 2015, n. 180, che ha introdotto in Italia, tra l’altro, una fattispecie sino ad oggi ignota, ovvero il c.d. burden sharing, da considerarsi isolatamente o nell’ambito del più complesso e articolato, potremmo dire anche famigerato, c.d. bail-in 61. Aldilà delle enormi differenze tra i due istituti, la peculiarità comune che assume rilevanza centrale ai fini qui in esame è il potere/dovere dell’autorità amministrativa – in Italia, la Banca d’Italia –, ai sensi dell’art. 27, di procedere ad una riduzione o conversione delle azioni, delle altre partecipazioni e degli strumenti di capitale di una banca, nelle ipotesi di crisi previste dal decreto. Tale operazione, che come chiaramente statuisce l’art. 29, 3° comma, è finalizzata a “coprire le perdite e assicurare il rispetto dei requisiti prudenziali”, può avvenire isolatamente, o, ove necessario, [continua ..]

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8. Conclusioni

Il percorso, anche normativo, sin qui tratteggiato dimostra quanto ampio sia il divario tra l’antico dibattito, che tanto aveva fatto discutere la dottrina commercialistica, sulla riduzione a zero e conseguente reintegrazione del capitale sociale, ed il complesso disciplinare oggi vigente. Tuttavia, forse, è solo il velo dell’ipocrisia che è stato tolto, non la sostanza dei ragionamenti che da allora già si portavano avanti. Non va dimenticato, in argomento, che anche prima della riforma societaria del 2003 si era giunti pressoché unanimemente a ritenere applicabile la disciplina della riduzione del capitale per perdite superiori al terzo anche ai casi di riduzione totale del capitale 69. Seppure con l’influenza della dottrina dei diritti individuali del socio – che, oltre ad avere una sicura e autorevolissima costruzione dogmatica, al­l’epoca godeva anche di più di un riscontro normativo –, era già da tempo oggetto di discussione, seppure con una prospettiva negativa, la possibilità di deliberare in questa ipotesi un aumento di capitale con esclusione del diritto di opzione 70. Il motivo principale che spingeva la dottrina e la giurisprudenza a negare la liceità di una simile operazione risiedeva nella constatazione che essa avrebbe comportato la espulsione del socio dalla compagine sociale. Come si spera di avere dimostrato, oggi, anche alla luce delle indicazioni di [continua ..]

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NOTE

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