Rivista di Diritto SocietarioISSN 1972-9243 / EISSN 2421-7166
G. Giappichelli Editore

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Azioni proprie e computo dei quorum assembleari (di Giulia Bovenzi)


Il saggio analizza la sentenza della Cassazione n. 23950/2018, la quale ha chiarito che, ai sensi dell’art. 2357-ter c.c., nelle s.p.a. chiuse le azioni proprie devono essere computate nel calcolo dei quorum costitutivi e deliberativi, al fine di evitare una concentrazione di potere in capo al gruppo di comando. Si esclude che il rischio di stallo assembleare possa indurre a correggere la norma in via interpretativa, stante la possibilità di ricorrere allo scioglimento anticipato.

Own shares and calculation of quorum at the shareholders’ meeting

The essay analyses the decision of the Supreme Court no. 23950/2018, which clarified that, pursuant to art. 2357-ter of the Italian Civil Code, in private companies limited by shares own shares must be counted in the calculation of the constitutive and deliberative quorums, in order to avoid an concentration of power in the command group. It is excluded that the risk of deadlock in the shareholders’ may lead to correct the rule in an interpretative way, given the possibility of resorting to early dissolution.

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CASSAZIONE CIVILE, I Sezione, 2 ottobre 2018, n. 23950. – Schirò Presidente – Nazzicone Relatore – P.M. (diff.) – Salini Costruzioni spa c. S.F.S. e SA.PAR. s.r.l. (Artt. 2357, 2357-ter, 2368, 2369 c.c.)   Massima non ufficiale Ai sensi dell’art. 2357-ter, 2° comma, c.c., nelle società chiuse, a differenza di quanto accade nelle società che accedono al mercato del capitale di rischio, le azioni proprie vengono computate ai fini dei quorum assembleari costitutivi e deliberativi, impedendo, così, che le stesse modifichino i rispettivi poteri fra i soci, più in generale la c.d. funzione organizzativa del capitale sociale, e diminuendo il rischio di concentrazione surrettizia del potere di voto in capo al gruppo di comando.    Svolgimento del processo (Omissis) La sentenza della Corte d’appello di Roma del 5 ottobre 2016, in riforma della decisione di primo grado, ha annullato la deliberazione del­l’assemblea ordinaria della S.C. s.p.a. del 23 giugno 2011, assunta in seconda convocazione con il voto favorevole del 4,7% circa del capitale sociale, la quale aveva approvato il bilancio d’eser­cizio chiuso al 31 dicembre 2010 e deciso la distribuzione degli utili conseguiti. La corte territoriale ha ritenuto che: a) con riguardo all’eccezione di carenza dell’interesse ad agire – deducibile in ogni stato e grado del giudizio – esso sussiste per l’azione di annullamento della deliberazione per mancato raggiungimento della maggioranza necessaria, in ragione della situazione di incertezza in ordine ai corretti criteri di calcolo della stessa in presenza di azioni proprie, eliminabile proprio con il ricorso al giudice; b) nel quorum deliberativo, che l’art. 2369, comma 3, c.c. indica nella maggioranza semplice del capitale intervenuto in assemblea, si devono ricomprendere le azioni proprie, detenute dalla società nella misura del 10% del capitale sociale, ai sensi del nuovo art. 2357-ter, comma 2, c.c., in cui il termine “capitale” è stato sostituito con quello più ampio di “maggioranze”. Avverso questa sentenza propone ricorso per cassazione la S.C. s.p.a., sulla base di quattro motivi. Resistono con controricorso gli intimati. Le parti hanno depositato le memorie di cui all’art. 378 c.p.c.   Motivi della decisione – Con il primo motivo, la ricorrente deduce la nullità della sentenza, per violazione degli artt. 112, 329, 342 e 346 c.p.c., avendo la corte territoriale annullato la deliberazione assembleare di distribuzione degli utili, sebbene si fosse al riguardo formato il giudicato interno ed in violazione del principio di corrispondenza del chiesto al pronunciato, dal momento che l’at­to di appello ha chiesto l’annullamento solo della deliberazione di approvazione del [continua..]
SOMMARIO:

1. Il caso - 2. Il quadro normativo - 3. Azioni proprie e calcolo dei quorum assembleari: la dottrina e la giurisprudenza a confronto con gli interventi legislativi - 4. Il commento. L’assenza di limiti all’acquisto di azioni proprie per le società chiuse: lo “stallo assembleare” e la “società senza soci” - NOTE


1. Il caso

La pronuncia in commento nasce dal ricorso presentato avverso la sentenza della Corte di appello di Roma che, in riforma alla decisione di primo grado, ha annullato una deliberazione dell’assemblea ordinaria di s.p.a., assunta in seconda convocazione con il voto favorevole del 47% circa del capitale sociale per approvare il bilancio d’esercizio e distribuire gli utili conseguiti. In particolare, la Corte territoriale ha disposto che nel quorum deliberativo, costituito dalla maggioranza semplice del capitale intervenuto in assemblea secondo l’art. 2369, 3° comma, c.c., dovevano «essere ricomprese le azioni proprie, detenute dalla società nella misura del 10% del capitale sociale», ai sensi del nuovo art. 2357-ter, 2° comma, c.c., in cui il termine «capitale» è stato sostituito con quello più ampio di «maggioranze»; da qui, l’annul­la­bilità a causa del mancato raggiungimento della maggioranza necessaria, dovuta, appunto, alla presenza di azioni proprie. Avverso tale sentenza la società ha proposto ricorso per Cassazione, lamentando, fra l’altro, la violazione degli artt. 2357-ter, 2° comma e 2369, 3° comma, c.c., poiché, a detta della ricorrente, le azioni proprie non dovrebbero conteggiarsi nel quorum deliberativo qualora la base di calcolo sia il capitale rappresentato, e non quello sociale, stante il rischio di stallo assembleare e del conseguente scioglimento della società. La Suprema Corte ha confermato le statuizioni del Giudice di appello, ponendo in evidenza la differente disciplina prevista per le società che non accedono al mercato del capitale di rischio rispetto a quella prevista per le società aperte con riguardo al problema del calcolo delle azioni proprie nei quozienti assembleari. Il dibattito relativo al loro computo nei quorum dipendeva, in passato, dalla precedente formulazione dell’art. 2357-ter, 2° comma, c.c., di de­ri­vazione comunitaria (Direttiva 77/91/CEE), con cui si stabiliva che tali azioni, il cui diritto di voto era in ogni caso considerato sospeso, venivano incluse «nel capitale» ai fini del calcolo delle quote richieste per la costituzione e per le deliberazioni dell’as­sem­blea. Con l’intervento del d.lgs. 29 novembre 2010, n. 224 il legislatore ha previsto [continua ..]


2. Il quadro normativo

La sentenza che qui si esamina interviene su di un tema, quello del computo delle azioni proprie ai fini del calcolo delle maggioranze e delle quote richieste per la costituzione e le deliberazioni dell’assem­blea, oggetto di diversi interventi legislativi e di un acceso dibattito giurisprudenziale e dottrinale. Senza soluzione di continuità con il codice di commercio del 1882, l’art. 2357 c.c. – tanto nella formulazione originaria, quanto in quella vigente – consente l’ac­quisto di azioni proprie solo a certe condizioni, disponendo poi la contemporanea sospensione del relativo diritto di voto [1]; la finalità perseguita dal legislatore del 1942 era, evidentemente, quella di evitare operazioni di carattere speculativo, ovvero che tale acquisto potesse «rappresentare per gli amministratori un sistema per crearsi una comoda maggioranza a spese del patrimonio sociale» [2]. Da qui, dunque, la soluzione di sterilizzare le azioni proprie, sospendendo per esse l’esercizio del diritto di voto e impedendo che le stesse potessero essere rappresentate in assemblea dagli amministratori della società. La seconda Direttiva comunitaria in materia societaria (77/91/CEE), recepita con d.p.r. 10 febbraio 1986, n. 30, ha apportato alcune modifiche in tema di acquisto, finanziamento per l’acquisizione e accettazione in garanzia di azioni proprie; in particolare, l’introduzione dell’art. 2357-ter c.c. avrebbe dovuto ovviare ad alcuni dubbi interpretativi relativi al 2° comma del­l’art. 2357 c.c., aggiungendo alla previsione della sospensione del diritto di voto la precisazione che i quorum assembleari dovevano, però, calcolarsi con riferimento all’intero capitale sociale. In realtà, nonostante le nobili intenzioni del legislatore, tale intervento ha generato uno stato di incertezza nella disciplina delle azioni proprie, omettendo di specificare se la norma in questione si sarebbe dovuta applicare a tutte le deliberazioni assembleari, ovvero nei soli casi in cui i quorum fossero stati individuati, per legge o per previsione statutaria, sulla base dell’intero capitale sociale [3]. In seguito alla Direttiva 92/101/CEE, la riforma del diritto societario del 2003 sembra aver lasciato formalmente immutata la disciplina in oggetto, evitando di apportare modifiche all’art. 2357 c.c. Nel 2008 il [continua ..]


3. Azioni proprie e calcolo dei quorum assembleari: la dottrina e la giurisprudenza a confronto con gli interventi legislativi

Nella vigenza dell’originario art. 2357 c.c., così come formulato nel codice del 1942, il legislatore restava silente relativamente al calcolo delle azioni proprie ai fini del conteggio dei quozienti costitutivi e deliberativi in assemblea; l’orientamento mag­gioritario dell’epoca, sia in giurisprudenza che in dottrina, ricavava dalla norma la volontà di escludere le predette azioni dai meccanismi di computo quale correttivo dell’insussistenza di un limite quantitativo al loro acquisto [6]. In particolare, si riteneva che, se le azioni proprie avessero dovuto calcolarsi nonostante la mancanza dei predetti limiti, si sarebbe potuta determinare la paralisi dell’organo assembleare in tutti quei casi in cui la quota di capitale rappresentata dalle azioni proprie fosse stata tale da impedire, in astratto o in concreto, il raggiungimento dei quorum deliberativi richiesti dalla legge e calcolati sul complesso delle azioni aventi diritto di voto. Il fondamento alla base di questa impostazione era costituito dal richiamo al vecchio art. 2368 c.c., il quale, per determinare la regolare costituzione dell’assemblea ordinaria, estrometteva dal conteggio le azioni a voto limitato. Di conseguenza, l’e­sclusione delle azioni proprie era ottenuta mediante la loro deduzione dal capitale, facendo riferimento, per l’adozione di qualsivoglia delibera, «al capitale ridotto» risultante da «tale operazione» e collocando al denominatore il capitale al netto delle azioni proprie [7]. All’opposto, per evitare che il loro acquisto autorizzato ed effettuato dagli amministratori riducesse il numero di azioni in circolazione a vantaggio dei soci di maggioranza, altri ritenevano che le azioni proprie dovessero essere sempre calcolate al denominatore persino per stabilire le quote di capitale prefissate per l’esercizio dei diritti delle minoranze, detti anche «diritti di quota», come nei casi previsti dagli artt. 2408 e 2409 c.c. [8] Il d.p.r. 10 febbraio 1986, n. 30 ha introdotto l’art. 2357-ter c.c., con cui il legislatore è intervenuto sul problema specifico, ma senza chiarire se la nuova norma avreb­be dovuto trovare o meno applicazione per ogni deliberazione assembleare, oltre le ipotesi in cui i quorum venivano individuati, per legge o per statuto, con riferimento all’intero capitale [continua ..]


4. Il commento. L’assenza di limiti all’acquisto di azioni proprie per le società chiuse: lo “stallo assembleare” e la “società senza soci”

A seguito dell’intervento legislativo del 2010, permane qualche voce discordante in dottrina e in giurisprudenza circa la necessità di escludere le azioni proprie dal sistema del computo ai fini deliberativi nel contesto delle assemblee ordinarie di seconda convocazione. Così, in base ad un’in­terpretazione strettamente letterale, si è sostenuto che il termine «richieste» di cui all’art. 2357-ter c.c., riferito sia alle maggioranze che alle quote, condurrebbe ad includere le azioni proprie nei meccanismi di calcolo soltanto nel caso in cui la legge richieda espressamente specifici quozienti costitutivi o deliberativi ai fini della formazione della volontà assembleare. [21] Viene, in tal senso, riproposta la tesi sostenuta da una parte di dottrina [22] con riferimento al precedente testo dell’art. 2357-ter c.c., introdotto nell’86: rispetto all’assemblea ordinaria di seconda convocazione, l’art. 2369, 3° comma c.c. prevede che la stessa deliberi qualunque sia la parte di capitale rappresentata dai soci partecipanti [23], mentre, ai sensi del quarto comma, lo statuto non può prevedere maggioranze più elevate di quelle indicate nei precedenti commi in occasione dell’ap­pro­vazione del bilancio e della nomina e revoca degli amministratori; di conseguenza, il quorum costitutivo risulta correlato ad una quantità indeterminata di capitale, mentre l’adozione delle delibere seguirebbe, inderogabilmente, la regola della maggioranza del capitale intervenuto in assemblea [24]. Se n’è dedotto che il legislatore, non richiedendo in questo caso specifici quorum costitutivi e deliberativi ragguagliati al capitale sociale, abbia voluto escludere le azioni proprie ai fini della determinazione dei quozienti assembleari, il tutto per facilitare l’adozione delle delibere ed evitare paralisi decisionali rispetto a quelle essenziali per lo svolgimento dell’attività sociale [25]. Dello stesso avviso è chi ha considerato che il funzionamento dell’assemblea azionaria resterebbe condizionato proprio dalle previsioni degli artt. 2368 e 2369 c.c., tanto da risultare «illegittimo» il computo delle azio­ni proprie nel «capitale rappresentato in assemblea», non solo perché non previsto dal nuovo art. [continua ..]


NOTE