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Le società di autoproduzione in mano pubblica: controllo analogo, destinazione prevalente dell´attività ed autonomia statutaria. Un aggiornamento a seguito dell´art. 4 del d.l. 13 agosto 2011, n. 138, convertito con legge 14 settembre 2011, n. 148
Mario Libertini
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Sommario:
1. I “requisiti richiesti dall’ordinamento comunitario per la gestione cosiddetta in house” da parte di enti pubblici. - 2. L’iniziativa economica pubblica nel diritto europeo: l’art. 106 t.f.u.e. - 3. L’evoluzione del diritto italiano: dalla capacità generale alla capacità speciale degli enti pubblici in ordine all’esercizio di imprese. - 4. L’applicazione del principio di tutela della concorrenza alla materia degli appalti pubblici. - 5. Il problema dell’elusione dell’obbligo di procedure competitive: la nascita delle figure dell’“organismo di diritto pubblico” e dell’affidamento diretto a società di in house providing. - 6. L’autoproduzione di beni o servizi da parte di enti pubblici: scelta autonoma o soluzione eccezionale di tipo sussidiario? - 7. Il nuovo articolo 4 del d.l. n. 138/2011, convertito con legge n. 148/2011. - 8. L’evoluzione giurisprudenziale in materia di requisiti per l’affidamento diretto in house: “controllo analogo” e “destinazione prevalente”, dalla sentenza Teckal (1999) alla sentenza Acoset (2009). - 9. L’evoluzione del concetto di “controllo analogo”: quattro diverse accezioni nel diritto vivente. - 10. Il “controllo analogo” come potere dell’azionista di determinare l’indirizzo strategico della gestione. - 11. Gli strumenti giuridici: i diritti amministrativi del socio nella s.r.l., i patti parasociali nella s.p.a. Critica alla tesi dell’ammissibilità di organi atipici destinati ad attuare il “controllo analogo”. - 12. La “destinazione prevalente” dell’attività produttiva e le clausole statutarie che la garantiscono. - 13. La “destinazione prevalente” e la capacità di diritto privato delle società di autoproduzione. - NOTE
1. I “requisiti richiesti dall’ordinamento comunitario per la gestione cosiddetta in house” da parte di enti pubblici.
Queste note sono rivolte all’esame delle regole, costruite dalla giurisprudenza europea con riferimento alle imprese di autoproduzione (c.d. in house providing) controllate da uno Stato o da altro ente pubblico. Si tratta, in altri termini, di un tentativo di analisi de “i requisiti richiesti dall’ordinamento comunitario per la gestione cosiddetta ‘in house’”, per usare l’espressione dell’art. 4, 13° comma, d.l. 13 agosto 2011, n. 138, conv. con legge 14 settembre 2011, n. 148. La disposizione del richiamato art. 4 ha sostituito, com’è noto, l’art. 23-bis, 3° comma, d.l. n. 112/2008, conv. con legge n. 133/2008 e poi modificato con d.l. 135/09, conv. con legge n. 166/2009, che è stata abrogata dal referendum del 12-13 giugno scorso. La disposizione dell’art. 23-bis precisava che dovevano essere «comunque rispettati i principi della disciplina comunitaria in materia di controllo analogo sulla società e di prevalenza dell’attività svolta dalla stessa con l’ente o gli enti pubblici che la controllano». Questa frase non è stata riprodotta nel nuovo art. 4, ma – avendo essa un valore solo ricognitivo dei requisiti sanciti dal diritto europeo – la mancata riproduzione della frase può considerarsi priva di rilievo normativo: i “requisiti richiesti dall’ordinamento comunitario” rimangono necessari per le [continua ..]
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2. L’iniziativa economica pubblica nel diritto europeo: l’art. 106 t.f.u.e.
Per inquadrare il problema, è opportuno premettere che, al momento della redazione del Trattato di Roma, la tradizione culturale in materia di imprese pubbliche vedeva due posizioni di principio fra loro contrastanti: a) una, più antica, era quella liberale classica, fondata sull’idea di netta separazione (non-concorrenza) fra pubblico e privato; su tali basi si poteva ammettere che i soggetti pubblici svolgessero attività produttive solo in funzione di autoproduzione di beni o servizi (lavori “in amministrazione diretta”), ovvero in quanto investiti di compiti di pubblico servizio (nel qual caso avrebbero potuto operare in proprio, anche mediante aziende autonome, oppure avvalersi di concessionari privati); in ogni caso, non si concepiva l’idea che l’ente pubblico producesse – direttamente o indirettamente – beni o servizi per i mercati, in concorrenza con i privati; l’impresa pubblica poteva giustificarsi solo con compiti di supplenza (oggi si direbbe: di fornitura del servizio universale), in caso di insufficienza di quella privata1; b) la seconda, storicamente più recente (e prevalente alla metà del XX secolo) teorizzava, con varie sfumature di differenza, la superiorità del modello di “economia mista” sul modello liberale classico, e perciò giungeva ad affermare la parità giuridica fra iniziativa economica pubblica e iniziativa economica privata [continua ..]
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3. L’evoluzione del diritto italiano: dalla capacità generale alla capacità speciale degli enti pubblici in ordine all’esercizio di imprese.
Il diritto italiano è andato però oltre: sulla spinta liberalizzatrice del diritto europeo sembra aver realizzato, in anni recenti, una precisa inversione di tendenza, passando dal riconoscimento di una capacità generale degli enti pubblici alla costituzione di società e organismi imprenditoriali, all’opposto regime di capacità speciale. Questo processo è stato segnato soprattutto dall’art. 3, 27° comma, legge 24 dicembre 2007, n. 244, e dalle modificazioni successive (oggi la normativa è dettata nei commi da 27 a 32-ter dell’art. 3 citato) 5. Oggi la capacità degli enti pubblici di partecipare a società è limitata alle (i) “società aventi per oggetto attività di produzione di beni e servizi strettamente necessarie per il perseguimento delle proprie attività istituzionali”; (ii) società che producono servizi di interesse economico generale; (iii) società “di committenza”, ai sensi della disciplina del codice dei contratti pubblici; (iv) società emittenti strumenti finanziari quotati nei mercati regolamentati. Le altre partecipazioni dovrebbero essere dismesse nei termini di legge. Questa norma è positivamente passata al vaglio della Corte costituzionale 6, che ha ritenuto: I) che la norma sia dettata a tutela della concorrenza (i.e. per evitare distorsioni della concorrenza, a favore di soggetti [continua ..]
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4. L’applicazione del principio di tutela della concorrenza alla materia degli appalti pubblici.
La rilevanza del fenomeno dell’autoproduzione di beni e servizi da parte di pubbliche amministrazioni tocca quindi i principi generali sulla libertà di iniziativa pubblica. La definizione precisa dei requisiti delle gestioni in house è però maturata, nel diritto europeo, in un contesto collaterale, che è quello della disciplina degli appalti pubblici. A tale proposito è ben noto che la spinta neoliberistica, maturata nell’ultimo decennio del secolo scorso, ha indotto le autorità europee a disciplinare – a fini di tutela della concorrenza – anche un profilo di rapporti fra azione pubblica e funzionamento dei mercati, che era rimasto estraneo all’impianto normativo dell’art. 90, e cioè quello dell’impatto concorrenziale dell’azione degli enti pubblici in qualità di committenti o di concedenti. La Comunità ha applicato dunque il principio di concorrenza anche al lato della domanda pubblica di beni e servizi, oltre che a quello dell’offerta. L’obiettivo primario è così divenuto quello di realizzare una concorrenza effettiva anche nel campo degli appalti pubblici di lavori, forniture e servizi. Tale obiettivo è stato ben presto esteso anche al campo delle concessioni (finora solo a livello di principi generali, ma è attualmente in discussione una direttiva in materia). È stato perciò imposto in termini [continua ..]
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5. Il problema dell’elusione dell’obbligo di procedure competitive: la nascita delle figure dell’“organismo di diritto pubblico” e dell’affidamento diretto a società di in house providing.
Mettendo ora da parte questi problemi di politica legislativa, si deve sottolineare che il diritto europeo, una volta stabilito il principio generale dell’obbligo di gara per le commesse pubbliche, si è posto il problema di combattere l’elusione del principio stesso. Da qui, in primo luogo, la costruzione della nozione di “organismo di diritto pubblico”, intesa ad evitare che privatizzazioni puramente formali consentissero ancora, agli enti pubblici, di assegnare commesse senza gara, avvalendosi di società private da essi pienamente controllate 12. Contemporaneamente, però, si è posto nel diritto comunitario il problema della compatibilità con i principi di concorrenza del fenomeno dell’autoproduzione di beni e servizi da parte di pubbliche amministrazioni. La risposta è stata, in linea di principio, positiva: l’autonomia organizzativa delle pubbliche amministrazioni non è stata incisa dal diritto europeo; d’altra parte, il fenomeno dell’autoproduzione, in sé considerato, può avere qualche valenza positiva, sia sul piano della valorizzazione del patrimonio tecnico pubblico, sia anche sul piano della partecipazione dei cittadini. Ecco dunque che il fenomeno della “privatizzazione formale”, cioè della società formalmente privata e lucrativa, ma interamente controllata da un soggetto pubblico e destinata a suoi fini, emerso attraverso [continua ..]
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6. L’autoproduzione di beni o servizi da parte di enti pubblici: scelta autonoma o soluzione eccezionale di tipo sussidiario?
Prima di passare all’esame delle decisioni giurisprudenziali comunitarie, mi sembra opportuno aprire una seconda parentesi (oltre a quella a cui è stato prima dedicato il § 3), per segnalare che sul punto cruciale, relativo alla collocazione del fenomeno dell’autoproduzione pubblica nel quadro generale dei principi della disciplina delle attività economiche, le indicazioni del diritto europeo appaiono un po’ sfocate. Non è infatti chiaro se la scelta di un ente pubblico a favore dell’autoproduzione debba ritenersi legittima in linea di principio, come espressione di autonomia dell’ente stesso 13 – alla stessa stregua del “diritto di autoproduzione” riconosciuto dall’art. 9, l. 287/1990, ai privati 14 – o se sia da ammettere solo come scelta residuale, in caso di comprovata impossibilità o inadeguatezza di una scelta di outsourcing a favore di imprese private. Le indicazioni della giurisprudenza comunitaria sembrerebbero nel primo senso. Infatti, la giurisprudenza, nel costruire (v. i §§ seguenti) i requisiti del “controllo analogo” e della “destinazione prevalente dell’attività”, con riferimento agli affidamenti in house, non aggiunge anche – come requisito di legittimità – quello della “indispensabilità” del ricorso a tale affidamento, rispetto a soluzioni alternative (requisito ben [continua ..]
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7. Il nuovo articolo 4 del d.l. n. 138/2011, convertito con legge n. 148/2011.
L’abrogazione referendaria dell’art. 23-bis, avvenuta all’insegna di una (superficiale, ad avviso di chi scrive e di molti osservatori) esaltazione delle gestioni pubbliche in quanto tali (oltre che di una diffusa ignoranza sulla reale portata dell’ora abrogato art. 23-bis) ha creato un vuoto di normazione statale diretta, ma non ha certo inciso sui principi comunitari, sopra richiamati, che sarebbero rimasti i soli principi atti a governare la materia (e forse non sarebbe stato tanto male), se il legislatore non avesse ritenuto opportuno intervenire subito, per sostituire un nuovo assetto normativo interno all’ormai abrogato art. 23-bis. Il nuovo assetto normativo doveva, per forza di cose, avere qualche differenza sostanziale rispetto al precedente, per evitare l’elusione dell’esito referendario; e così è stato. Il nuovo art. 4 del d.l. 13 agosto 2011, n. 138, conv. con legge 14 settembre 2011, n. 148, detta una complessa normativa, articolata su tre piani: una normativa generale, incentrata sui principi di liberalizzazione e di tutela della concorrenza, e due normative speciali (rispettivamente al 13° comma e ss. e 34° comma), atte a garantire spazi (piuttosto ampi) di sopravvivenza alle gestioni pubbliche dirette. A fini di orientamento, riassumiamo brevemente la nuova disciplina generale, dettata dall’art. 4: a) gli enti locali («nel rispetto del principio di concorrenza, [continua ..]
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8. L’evoluzione giurisprudenziale in materia di requisiti per l’affidamento diretto in house: “controllo analogo” e “destinazione prevalente”, dalla sentenza Teckal (1999) alla sentenza Acoset (2009).
Veniamo adesso alla rassegna critica delle decisioni giurisprudenziali comunitarie in materia di affidamenti diretti a scopo di autoproduzione. 8.1. Com’è noto, l’indicazione di principio, relativa alle società di providing in house, viene espressa chiaramente, per la prima volta, nella celebre sentenza CGCE, 18 novembre 1999, C-107/98, Teckal, in cui la Corte sancisce che non vi è appalto, soggetto alla relativa direttiva (e quindi non vi è obbligo di gara) «nel caso in cui ... l’ente pubblico eserciti sulla persona di cui trattasi un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi e questa realizzi la parte più importante della propria attività con l’ente o con gli enti locali che la controllano». È abbastanza chiaro che i giudici hanno avuto in mente ipotesi di privatizzazione formale di aziende pubbliche e di consorzi produttivi fra enti pubblici, cioè di strutture produttive che erano soggette a vincoli gerarchici o comunque di indirizzo, all’interno delle organizzazioni pubbliche di appartenenza, pur godendo di un ampio spazio di autonomia gestionale nell’esercizio dell’attività produttiva. La doppia formula – del “controllo analogo” e della “attività prevalente” – è destinata a duraturo successo, ma non è definita in modo analitico nella sentenza Teckal, sicché finisce per [continua ..]
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9. L’evoluzione del concetto di “controllo analogo”: quattro diverse accezioni nel diritto vivente.
Al termine di questo excursus giurisprudenziale si deve prendere atto – mi sembra – che, nel diritto vivente, il requisito del “controllo analogo” si è ormai evoluto, fino ad assumere quattro possibili significati, relativi a fattispecie diverse. Ciascuna di esse pone però ancora all’interprete alcuni problemi di precisazione dei relativi requisiti, che qui di seguito si cercherà di segnalare. A) La prima figura è quella del controllo individuale da parte di un ente pubblico sulla società affidataria. In ordine a questa figura, la giurisprudenza comunitaria ci dice che il controllo individuale dev’essere totalitario e deve essere caratterizzato da un quid pluris, rispetto al normale controllo societario; si aggiunge (v. in particolare la sentenza SeTCo) che tale situazione è – in linea di principio – compatibile con le forme giuridiche della società di capitali e che la validità degli strumenti giuridici utilizzati per realizzare una situazione di “controllo analogo” dev’essere valutata alla stregua del diritto nazionale. Il punto ancora da definire è in che cosa esattamente consista quel quid pluris richiesto, rispetto al normale controllo societario. B) La seconda figura è quella del controllo congiunto da parte di più enti pubblici sul soggetto affidatario (che potrebbe essere un consorzio, una società o altra struttura [continua ..]
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10. Il “controllo analogo” come potere dell’azionista di determinare l’indirizzo strategico della gestione.
Qui di seguito cercherò di indicare le soluzioni che mi sembrano più attendibili, in relazioni ai punti lasciati aperti nel paragrafo precedente. Anzitutto, per ciò che riguarda il controllo individuale, una volta acquisito che il semplice controllo azionario totalitario è necessario 27, ma non sufficiente 28 a configurare il controllo “analogo”, il quid pluris, richiesto dalla giurisprudenza comunitaria, può ricostruirsi nel senso che l’ente pubblico azionista deve mantenere una influenza dominante sulla direzione strategica della società; non occorre invece anche un controllo diretto sul day to day management 29. Occorre, tuttavia, che i poteri di controllo sulla gestione comprendano anche la facoltà di vigilare e incidere direttamente sul rispetto, da parte della società in house, delle norme del patto di stabilità interna, in materia di limiti alle spese per personale e consulenze (art. 4, 14° comma, d.l. n. 138/2011) 30. Questa soluzione appare razionale, ai fini dell’efficienza delle società di autoproduzione. L’efficienza sarà tanto meglio raggiunta quanto più sarà valorizzata la capacità tecnica e professionale dei manager designati dal soggetto pubblico; del resto, anche il successo delle vecchie aziende municipalizzate, quando effettivamente conseguito nell’esperienza storica, dipendeva dalla [continua ..]
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11. Gli strumenti giuridici: i diritti amministrativi del socio nella s.r.l., i patti parasociali nella s.p.a. Critica alla tesi dell’ammissibilità di organi atipici destinati ad attuare il “controllo analogo”.
Ciò posto, ci si deve chiedere se e quali strumenti, alla stregua del diritto societario italiano comune – senza ipotizzare, al momento, deroghe ad esso – consentano di raggiungere il risultato del “controllo analogo”, così come richiesto dalla giurisprudenza europea. Un primo problema, di più facile soluzione, riguarda il profilo della necessità del divieto di presenza di soci privati. Clausole di questo tenore sono oggi ammissibili anche nello statuto di una s.p.a. (arg. ex art. 2355-bis c.c.). Per la verità, l’esistenza di una clausola statutaria formale – richiesta dalla nostra giurisprudenza amministrativa 38 – non parrebbe necessaria, né sufficiente, alla stregua dei criteri sostanzialistici, normalmente seguiti nell’interpretazione delle norme del diritto europeo della concorrenza: infatti, per diritto societario, una clausola statutaria può sempre essere modificata, mentre un patto parasociale o un programma pluriennale di gestione possono avere una solidità applicativa superiore a quella di una norma statutaria. Ciò che conta – per la legittimità della scelta di autoproduzione – dovrebbe essere dunque che non vi sia alcun effettivo programma di privatizzazione della società in questione, ed anzi che la volontà effettiva degli enti soci sia nel senso del mantenimento della proprietà interamente pubblica. [continua ..]
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12. La “destinazione prevalente” dell’attività produttiva e le clausole statutarie che la garantiscono.
Il secondo requisito delle società di providing in house, cioè quello della “destinazione prevalente” dell’attività produttiva all’ente, o agli enti soci, è stato meno approfondito, dalla giurisprudenza comunitaria, rispetto a quello del “controllo analogo”. Questo requisito non è limitato alla considerazione dell’oggetto statutario, che pur deve essere coerente con l’indicazione del diritto europeo, e non può legittimamente essere aperto alla realizzazione di attività disparate, diverse dalla specifica missione affidata alla società in house 56. Il requisito deve dunque estendersi anche all’attività effettivamente svolta dalla società di autoproduzione. Il punto più interessante, in proposito, è costituito dal fatto che la giurisprudenza comunitaria, fin dall’origine, non ha mai richiesto la destinazione “esclusiva” della produzione all’ente di appartenenza, come pure sarebbe sembrato coerente con la finalità dell’autoproduzione. Questa circostanza potrebbe far pensare che il requisito della prevalenza sia una sorta di regola de minimis, cioè il riconoscimento di un margine di tolleranza puramente quantitativo, che consentirebbe all’impresa di autoproduzione di esercitare normalmente i suoi affidamenti diretti, facendo pure qualche incursione nei mercati esterni, purché [continua ..]
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13. La “destinazione prevalente” e la capacità di diritto privato delle società di autoproduzione.
Anche per questo profilo il diritto italiano è andato, per qualche aspetto, oltre le indicazioni del diritto europeo 57. In effetti, il controllo sul rispetto del vincolo della “attività prevalente”, così come sancito nel diritto europeo, non è certo facile. Perciò appare legittimo che una norma di diritto nazionale – come quella dell’art. 13 del nostro d.l. n. 223/2006, conv. con legge n. 246/2006 – ponga dei divieti di vendita a terzi e di partecipazione alle gare, a carico delle società in house. Questo limite è giustificato da ragioni di tutela della concorrenza 58 e ciò induce a pensare che le relative norme non possano essere qualificate come eccezionali e di stretta interpretazione, come invece ritiene l’orientamento forse prevalente nella giurisprudenza amministrativa italiana 59. Quest’ultimo filone giurisprudenziale interpreta la disposizione in esame alla luce di un supposto principio di piena libertà d’iniziativa economica degli enti pubblici. In questo senso, esso appare orientato in direzione opposta a quella dell’abrogato art. 23-bis, d.l. n. 112/2008, ma anche dell’attuale art. 4, d.l. n. 138/2011, che sembrano voler confinare a situazioni pur sempre eccezionali la stessa facoltà di autoproduzione di beni e servizi da parte di enti pubblici (v. supra, §§ 6 e 7). Appare, inoltre, in contrasto con [continua ..]
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NOTE