Rivista di Diritto SocietarioISSN 1972-9243 / EISSN 2421-7166
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“Atti di frode” e revoca dell'ammissione al concordato preventivo (note a Cass., 26 giugno 2014, n. 14552 e Cass., 4 giugno 2014, n. 12533) (di Alessandro Marco Patti)


CASSAZIONE CIVILE, Sez. I, 26 giugno 2014, n. 14552. – Rordorf Presidente – Bernabai Relatore – P.M. (conf.) – Costruzioni generali scavi s.r.l. unipersonale in liq. c. Sicef società italiana costruzioni Edilferro s.p.a. e altro

Conferma App. Milano del 21 gennaio 2013, n. 228.

Fallimento ed altre procedure concorsuali – Concordato preventivo – Poteri del giudice – Revoca dell’ammissione – Atti in frode ex art. 173 legge fall. – Conoscenza dei creditori che esprimono il voto

 (Artt. 162, 173, 180 legge fall.)

L’accertamento, ad opera del commissario giudiziale, di atti di occultamento o di dissimulazione dell’attivo, della dolosa omissione della denuncia di uno o più crediti dell’esposizione di passività insussistenti o della commissione di altri atti di frode da parte del debitore determina la revoca dell’am­missione al concordato, a norma dell’art. 173 della legge fallimentare, indipendentemente dal voto espresso dai creditori in adunanza e quindi anche nell’ipotesi in cui i creditori medesimi siano stati resi edotti di quell’accer­tamento. (1)

 

(II)

 

CASSAZIONE CIVILE, Sez. I, 4 giugno 2014 n. 12533. – Rordorf Presidente – De Chiara Relatore – P.M. (diff.) – Telemania S.r.l. c. Soc. elettrodomestici

Cassa App. Caltanissetta del 14 febbraio 2011.

Fallimento ed altre procedure concorsuali – Concordato preventivo – Poteri del giudice – Revoca dell’ammissione in assenza di opposizioni – Atti in frode ex art. 173 legge fall. – Nozione

 (Artt. 162, 173, 180 legge fall.)

 Il tribunale, anche in assenza di opposizioni, è titolare del potere di negare l’o­mologazione di un concordato preventivo laddove rilevi l’esistenza di atti in frode ai creditori che, ai sensi dell’art. 173 legge fall., implicano la revoca del­l’am­missione. (2)

 

 (I)

 

ESPOSIZIONE DEL FATTO

Con sentenza del 19 giugno 2012 il Tribunale di Busto Arsizio dichiarò il fallimento della Costruzioni Generali Scavi s.r.l., su istanza della Sicef-Società Italiana Costruzioni Edilferro s.p.a., dopo avere rigettato con decreto coevo una domanda di omologazione di concordato preventivo presentata dalla medesima Costruzioni Generali Scavi. Il successivo reclamo della fallita fu respinto dalla Corte d’appello di Milano con sentenza del 21 gennaio 2013. La corte osservò che solo dalla lettura della relazione del commissario giudiziale ex articolo 172, L.F., i creditori erano venuti a conoscenza del fatto che la società debitrice, già in situazione finanziaria critica, aveva distribuito utili, in forza della delibera assembleare del 6 ottobre 2010, per il rilevante ammontare di euro 430.000,00; che, inoltre, la società aveva definito un contenzioso in corso, avente ad oggetto un appalto da essa eseguito, mediante una transazione di contenuto pregiudizievole, con cui era stata riconosciuta alla committente Leonida’s House s.p.a. la somma di euro 1.886.000,00 per lavori non eseguiti ed una penale per il ritardo, laddove, in considerazione delle proroghe ottenute e dei difetti contestati ma non accertati, sarebbe stato solo giustificato un minore addebito di euro 300.000; che, per di più, opere extra contratto per il valore di euro 3.586.000,00, oltre all’Iva, erano state ivi compensate con il ben più modesto importo di euro 786.000,00; che neppure era stata indicata, nella proposta di concordato preventivo, l’esistenza di ulteriori cre­diti vantati da due società per complessivi euro 500.000,00, a nulla rilevando che tali crediti fossero contestati e non accertati giudizialmente. In tali comportamenti la corte territoriale, anche alla luce degli stretti rapporti della Costruzioni Generali Scavi con la committente Leonida’s House e della stipulazione dell’anzidetta transazione in data pressoché contemporanea alla presentazione del ricorso per l’ammissione alla procedura di concordato, ravvisò atti fraudolenti idonei a determinare la revoca dell’am­missione al concordato preventivo in base alla previsione della L.F., citato articolo 173. Avverso questa sentenza, notificata il 13 febbraio 2013, la Costruzioni Generali Scavi ha proposto ricorso per cassazione, affidato a due motivi. La Sicef-Società Italiana Costruzioni Edilferro ha resistito con controricorso. La curatela del fallimento non ha svolto invece attività difensiva.

RAGIONI DELLA DECISIONE

  1. La ricorrente deduce anzitutto la violazione della L.F., articolo 173, contestando che possa ritenersi in frode ai creditori un accordo transattivo da essa stipulato con la controparte a definizione di un complesso contenzioso che ai creditori era stato reso noto. Nega poi rilevanza, sempre ai fini dell’applicazione del citato articolo 173, alla mancata menzione di due crediti, contestati e non ancora giudizialmente accertati. Nucleo centrale dell’iter argomentativo a sostegno della censura è l’affermata natura contrattuale del concordato preventivo, espressione di un accordo riconducibile all’autonomia negoziale e, come tale, insindacabile dal giudice, una volta accertato che i creditori siano stati informati della situazione patrimoniale attuale della loro debitrice. All’approvazione dei creditori non si potrebbe sovrapporre alcun controllo di tipo dirigistico operato dal tribunale: neppure in presenza di atti distrattivi del patrimonio, se commessi in data anteriore all’apertura della procedura, allorché i creditori, prima della libera espressione del loro voto in assemblea, ne abbiano comunque acquisito conoscenza – come nella specie – per mezzo della relazione del commissario giudiziale. La ri­corrente contesta poi – anche sotto il profilo della carenza di motivazione – la natura fraudolenta degli atti sottoposti a scrutinio dalla corte milanese, negando che la distribuzione degli utili, l’ac­cordo transattivo con la committente Leonida’s House s.p.a. e l’omessa inclusione nella situazione patrimoniale di crediti contestati possano iscriversi nel novero degli “altri atti di frode” contemplati nella previsione di chiusura della prima parte del citato articolo 173, comma 1.
  2. Il ricorso, nella parte in cui denuncia violazioni di legge, non appare meritevole di accoglimento. Dalla premessa sistematica che vorrebbe assegnare natura contrattuale al concordato preventivo riformato con il Decreto Legislativo 9 gen­naio 2006, n. 5, e successive modifiche, non è dato ricavare la conclusione dell’irrilevanza della verifica officiosa di eventuali atti fraudolenti, se commessi anteriormente all’ammissione alla procedura, volta che i creditori ne siano stati co­munque informati. La disputa sulla natura del­l’istituto del concordato preventivo è antica, ma, già prima della recente riforma cui sopra s’è fatto cenno, questa corte aveva avuto modo di puntualizzare che, ove pure si fosse voluto convenire sul fondamento eminentemente negoziale del­l’istituto, accostando lacessio bonorumconcordataria alla figura contrattuale disegnata dall’ar­ticolo 1977 c.c., si sarebbe nondimeno dovuto tenere conto che esso non si risolve in un mero atto di autonomia negoziale delle parti, ma si realizza in un contesto proceduralizzato ed in un ambito di controlli pubblici affidati al giudice per garantire il raggiungimento delle finalità perseguite dal legislatore (si veda, in motivazione, Sez. un. n. 19506 del 2008). Anche dopo l’entrata in vigore della riforma le sezioni unite di questa corte hanno ribadito, nella sentenza n. 1521 del 2013, che i connotati di natura negoziale riscontrabili nella disciplina dell’istituto non escludono “evidenti manifestazioni di riflessi pubblicistici, suggeriti dall’avvertita esigenza di tener conto anche degli interessi di soggetti ipoteticamente non aderenti alla proposta, ma comunque esposti agli effetti di una sua non condivisa approvazione, ed attuati mediante la fissazione di una serie di regole processuali inderogabili, finalizzate alla corretta formazione dell’accordo tra debitore e creditori, nonché con il potenziamento dei margini di intervento del giudice in chiave di garanzia”. Non è dunque ad impostazioni dogmatiche di carattere generale che occorre aver riguardo, bensì alla concreta disciplina normativa di volta in volta applicabile; ed è innegabile che la revoca dell’ammissione al concordato, per avere il debitore occultato o dissimulato parte dell’attivo, dolosamente omesso di denunciare uno o più crediti, esposto passività insussistenti o commesso altri atti di frode – revoca contemplata dalla L.F., articolo 173, in modo sostanzialmente invariato rispetto al regime anteriore alla riforma – già per il carattere ufficioso da cui è connotata, non appare riducibile ad una dialettica di tipo meramente negoziale, ma pienamente invece s’iscrive nel novero degli interventi del giudice in chiave di garanzia cui sopra s’è fatto cenno. Con riferimento agli “atti in frode” contemplati dal citato articolo 173, questa corte ha già avuto occasione di osservare come non si possa prescindere dall’accertamento che il comportamento del proponente è stato posto in essere con dolo (Cass. n. 17038 del 2011), consistente anche nella mera consapevolezza di aver taciuto nella proposta circostanze rilevanti ai fini dell’informazione dei creditori (Cass. 10778 del 2014); e come la condotta del debitore debba appunto risultare volta ad occultare situazioni di fatto idonee ad influire sul giudizio dei creditori (Cass. n. 13817 del 2011, e Cass. n. 3543 del 2014), non identificandosi con quelle di cui agli articoli 64 e ss. della medesima legge fallimentare, ma occorrendo che esse siano state inizialmente ignorate dagli organi della procedura e dai creditori e successivamente accertate dal commissario giudiziale (Cass. n. 23387 del 2013). Si è anche aggiunto che la disposizione in esame non esaurisce il suo contenuto precettivo nel richiamo al fatto scoperto perché ignoto nella sua materialità, ma ben può ricomprendere il fatto non adeguatamente e compiutamente esposto in sede di proposta di concordato ed allegati, e che quindi può dirsi accertato dal commissario, in quanto individuato nella sua completezza e rilevanza ai fini della corretta informazione dei creditori, solo successivamente (Cass. n. 9050 del 2014). Ferme tali premesse, ed anche a prescindere dall’inquadramento – prospettato nell’im­pu­gnata sentenza – dell’istituto in esame nella figura generale dell’abuso del diritto (figura intorno alla cui configurabilità la disputa è peraltro ancora assai viva), occorre puntualizzare che la fraudolenza degli atti posti in essere dal debitore, se implica, come già detto, una loro potenzialità decettiva nei riguardi dei creditori, non per questo assume rilievo, ai fini della revoca dell’am­missione al concordato, solo ove l’inganno dei creditori si sia effettivamente realizzato e si possa quindi dimostrare che, in concreto, i creditori medesimi hanno espresso il loro voto in base ad una falsa rappresentazione della realtà. Quel che rileva è il comportamento fraudolento del debitore, non l’effettiva consumazione della frode. Se così non fosse, se cioè l’accertamento degli atti fraudolenti ad opera del commissario potesse essere superato dal voto dei creditori, preventivamente resi edotti della frode e disposti ugualmente ad approvare la proposta concordataria, non si capirebbe perché il legislatore ricollega invece immediatamente alla scoperta degli atti in frode il potere-dovere del giudice di revocare l’ammissione al concordato. E ciò senza la necessità di alcuna presa di posizione sul punto dei creditori, ormai resi edotti della realtà della situazione venuta alla luce, e senza dare spazio alcuno a possibili successive loro valutazioni in proposito (come, sul piano sistematico, risulta oggi confermato anche dall’applicabilità dell’istituto della revoca per atti fraudolenti sin dalla fase ancora embrionale della procedura, in caso di domanda di concordato con riserva di successiva presentazione della proposta e del piano, a norma della L.F., articolo 161, comma 6, novellato dal Decreto Legge n. 69 del 2013, articolo 82, comma 1, lettera b, convertito con L. n. 98 del 2013). In tali situazioni, ove fosse fondata la tesi qui propugnata dalla ricorrente, sarebbe stato logico che il legislatore avesse previsto ugualmente la possibilità di dar corso alla procedura, almeno sino all’adunanza dei creditori, così da consentire a costoro di esprimere il loro voto alla luce dei fatti scoperti ed illustrati dal commissario giudiziale. Poiché non è così, deve di necessità concludersi che il legislatore ha inteso sbarrare la via del concordato al debitore il quale abbia posto dolosamente in essere gli atti contemplati dal citato articolo 173, individuando in essi una ragione di radicale non affidabilità del debitore medesimo e quindi, nel loro accertamento, un ostacolo obiettivo ed insuperabile allo svolgimento ulteriore della procedura. Donde l’enun­cia­zione del seguente principio di diritto: l’accer­tamento, ad opera del commissario giudiziale, di atti di occultamento o di dissimulazione dell’atti­vo, della dolosa omissione della denuncia di uno o più crediti, dell’esposizione di passività insussistenti o della commissione di altri atti di frode da parte del debitore determina la revoca dell’am­mis­sione al concordato, a norma della Legge fall., articolo 173, indipendentemente dal voto e­spresso dai creditori in adunanza e quindi anche nell’ipotesi in cui i creditori medesimi siano stati resi edotti di quell’accertamento. Giova solo aggiungere che il principio di diritto ora enunciato non vale, certo, a reintrodurre il giudizio di meritevolezza, che la riformata legge fallimentare ha espunto dal novero dei presupposti per l’am­missione al concordato preventivo. La meritevolezza era, infatti, un requisito positivo di carattere generale, che implicava la necessità di un apprezzamento favorevole della pregressa condotta dell’imprenditore (sfortunato, ma onesto), nel­l’ottica di una procedura prevalentemente concepita come beneficio premiale. Era, quindi, nozione ben più ampia dell’assenza di atti di frode, non solo genericamente pregiudizievoli, ma direttamente finalizzati, in esecuzione di un disegno preordinato, a trarre in inganno i creditori in vista dell’accesso alla procedura concordataria. Né al riguardo vale obbiettare che lo strumento repressivo di condotte illecite, in subiecta materia, sarebbe da individuare non già nel citato articolo 173, bensì nella norma incriminatrice di cui al successivo articolo 236: perché è perfettamente ammissibile, ed anzi normale, il concorso di una sanzione penale con altra di diversa natura, volta ad impedire la validità e l’efficacia di atti viziati da antigiuridicità speciale.
  3. Il ricorso non è accoglibile neppure sotto il profilo dei pretesi vizi di motivazione in cui sarebbe incorsa l’impugnata sentenza nell’accer­ta­mento del carattere illecito delle operazioni richiamate. I fatti valorizzati ai fini della decisione sono stati soprattutto, in primo luogo, il silenzio mantenuto, nella proposta di concordato, su una rilevante distribuzione di utili, avvenuta circa un anno prima della presentazione del ricorso, e su una transazione stipulata con la committente Leonida’s House, valutata dalla corte territoriale estremamente svantaggiosa per la debitrice (transazione pressoché’ coeva alla deliberazione di richiedere l’ammissione alla procedura concordataria); in secondo luogo, la mancata inclusione, nella relazione sulla situazione patrimoniale, di crediti vantati da due società terze per complessivi euro 500.000 circa. Tale comportamento reticente è stato giudicato ostativo al consenso informato del ceto creditorio – resone edotto solo tre giorni prima dell’adunanza, grazie alla relazione del commissario giudiziale – ed oggettivamente sanzionabile con la revoca dell’am­missione al concordato. Di tutte queste operazioni, la corte d’appello ha congruamente motivato la natura fraudolenta. Sia della distribuzione di utili per oltre euro 400.000,00, depauperativa del patrimonio della società, quando già incombeva lo stato di crisi economico-finanziaria; sia, ancor più, dell’accordo transattivo, che riconosceva alla committente la somma di euro 1.000.886, a titolo di penale per danni: somma che tanto il tribunale quanto la corte d’appello, con apprezzamento insindacabile in questa sede, hanno ritenuto ingiustificata in relazione alle opere non eseguite ed ai difetti contestati. A questo riguardo, un ulteriore elemento, pure apprezzato in motivazione, è stato la falcidia drastica del compenso maturato per l’esecuzione di lavori extracontratto (da euro 3.586.000,00, oltre ad Iva, ad euro 786.000,00): con una differenza in danno dell’appaltatrice di euro 2.800.000,00, ritenuta ingiustificata. Per quanto riguarda l’ele­mento psicologico del dolo nelle predette operazioni, esso è stato presuntivamente desunto non solo dalla loro omessa menzione nel ricorso per concordato preventivo – nonostante la rilevante incidenza economica – ma anche dalla genesi coeva della transazione e della predisposizione della domanda di concordato preventivo: tanto più sintomatica, alla luce dei rapporti stretti, correnti tra la società committente e l’appaltatrice Costruzioni Generali Scavi s.r.l.. Un articolato iter argomentativo, dunque, analitico ed immune da vizi logici, a sostegno dell’accertamento di un disegno volto a pregiudicare il ceto creditorio e non disvelatoab initio. Ancor più decisivo, ai fini che qui rilevano, è l’accertamento compiuto dalla corte di merito in ordine alla mancata inclusione dei due crediti cui già s’è fatto cenno: circostanza che configura proprio l’ipotesi tipizzata dalla L.F., articolo 173, con riferimento alla quale non è affatto esimente la contestazione stragiudiziale in punto dian e quantum debeatur, che avrebbe semmai imposto un supplemento d’in­formazione sul punto ma non autorizzato certo a tacere l’esistenza di una posta di tale entità. Poiché, dunque, l’accertamento del nesso funzionale e dell’elemento psicologico che deve legare gli atti pregressi in frode dei creditori con la proposta del concordato preventivo spetta al giudice di merito, restando soggetto a sindacato di legittimità sotto il solo profilo del vizio di motivazione, e poiché, come s’è detto, nessun vizio di motivazione è riscontrabile nel caso in esame, il ricorso va respinto.
  4. Le spese seguono la soccombenza e vengono liquidate come in dispositivo, sulla base del valore della causa, del numero e della complessità delle questioni trattate.

P.Q.M.

La corte rigetta il ricorso e condanna la società ricorrente alla rifusione delle spese processuali, liquidate in complessivi euro 8200,00, di cui euro 8000,00 per compenso, oltre agli accessori di legge, dando atto, ai sensi del Decreto del Presidente della Repubblica n. 115 del 2002, articolo 13, comma 1 quater, della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della stessa ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del citato articolo 13, comma 1 bis. Così deciso in Roma, il 12 febbraio 2014. Depositato in Cancelleria il 26 giugno 2014

(II)

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

La Corte d’appello di Caltanissetta ha respinto il reclamo proposto dalla Telemania s.r.l., dedita al commercio di prodotti elettronici e telematici, avverso il decreto con cui il Tribunale della stessa città aveva negato l’omologazione del concordato preventivo proposto ai creditori nell’aprile 2009 dalla società reclamante, alla quale ha ascritto comportamenti fraudolenti, ai sensi della L.F., articolo 173 emergenti da una serie di irregolarità quali: l’intestazione del 99% delle quote a una signora mai interessatasi dell’azienda; il ritardato deposito dei bilanci del 2005 e del 2007, l’omesso deposito del bilancio 2006 e la mancata presentazione e approvazione del bilancio 2008, relativi proprio agli anni della crisi dell’impresa; l’irregolare tenuta dei registri IVA, del registro degli acquisti, del registro dei corrispettivi e del registro riepilogativo; la vendita al­l’ingrosso sottocosto delle rimanenze di magazzino senza fatturazione e senza autorizzazione ai sensi del Decreto Legislativo 31 marzo 1998, n. 114, articolo 15; la mancata adozione dei provvedimenti conseguenti alla riduzione del capitale sociale al disotto del limite legale. La Telemania s.r.l. ha proposto ricorso per cassazione articolando due motivi di censura, illustrati anche con memoria. Non hanno resistito gli intimati.

MOTIVI DELLA DECISIONE

  1. Con il primo motivo di ricorso, denunciando violazione della Legge fall., articolo 162, com­ma 2, articoli 173 e 180, si nega che, in difetto – come nella specie – di opposizioni all’omolo­gazione, il tribunale possa entrare nel merito dei pretesi atti di frode; si lamenta che il giudizio in proposito sia fondato su mere supposizioni; si contesta che i fatti valorizzati dalla Corte d’ap­pello siano configurabili quali atti di frode ai sensi della L.F., articolo 173.
  2. Con il secondo motivo si censura la motivazione del decreto impugnato, in particolare nel punto in cui si afferma che non sarebbero stati depositati i bilanci d’esercizio della società relativi agli ultimi anni, sostenendosi che tale circostanza non corrisponde al vero.
  3. I due motivi, da esaminare congiuntamente essendo connessi, sono fondati nei termini che seguono. Non è esatto che il tribunale sia privo del potere di negare l’omologazione, anche in assenza di opposizioni, se è in grado di rilevare l’esistenza di circostanze, quali per esempio atti in frode dei creditori, che ai sensi della L.F., articolo 173 avrebbero implicato la revoca dell’am­missione. Un siffatto potere è infatti espressione del doveroso controllo sulla regolarità della procedura, non limitata ai soli dati formali, e la corrispondenza tra i poteri officiosi del tribunale nelle tre fasi dell’ammissione, dell’eventuale revoca e dell’omologazione del concordato è puntualizzata anche da Cass. Sez. Un. 1521/2013. La pronuncia impugnata è invece errata là dove individua gli “atti in frode” ai sensi della L.F., articolo 173, comma 1 (ossia anteriori all’apertura della procedura, quelli successivi – qui non rilevanti – essendo previsti all’u.c.) idonei a giustificare la revoca dell’ammissione al concordato, ai sensi del comma 2, e dunque anche il diniego di omologazione. Questa Corte ha già avuto occasione di chiarire che la nozione di atto in frode commesso anteriormente all’apertura della procedura di concordato esige che la condotta del debitore sia stata volta ad occultare situazioni di fatto idonee ad influire sul giudizio dei creditori, cioè tali che, se conosciute, avrebbero presumibilmente comportato una valutazione diversa e negativa della proposta e, dunque, che esse siano state “accertate” dal commissario giudiziale, cioè da lui “scoperte”, essendo prima ignorate dagli organi della procedura o dai creditori; sempre che, peraltro, pur essendo state dichiarate dal proponente, non siano dipese da comportamenti depauperativi del patrimonio posti in essere dal medesimo con la prospettiva e la finalità di avvalersi dello strumento del concordato, ponendo i creditori di fronte ad una situazione di pregiudicate o insussistenti garanzie patrimoniali in modo da indurli ad accettare una proposta comunque migliore della prospettiva liquidatoria (Cass. 13817/2011, 13387/2013). Invece i comportamenti considerati dalla Corte d’appello quali atti in frode, sopra indicati in narrativa, integrano (salvo il primo, che è addirittura neutro)mere irregolarità contabili oggi (a seguito della modifica della L.F., articolo 160 introdotta dal Decreto Legge 14 marzo 2005, n. 35, conv. in L. 14 maggio 2005, n. 80) non più ostative, di per sé, all’ammissione ed omologazione del concordato e delle quali non viene evidenziata in modo puntuale una valenza decettiva per il ceto creditorio.
  4. Il decreto impugnato va quindi cassato, in relazione alla censura accolta, con rinvio al giudice indicato in dispositivo, il quale si atterrà al principio di diritto enunciato al penultimo capoverso del paragrafo che precede e provvederà anche sulle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso, cassa il decreto impugnato e rinvia, anche per le spese alla Corte d’appello di Caltanissetta in diversa composizione. Così deciso in Roma, il 12 febbraio 2014. Depositato in Cancelleria il 4 giugno 2014.

SOMMARIO:

1. Il caso - 2. La normativa di riferimento - 3. I precedenti giurisprudenziali e la dottrina - 3.1. Il potere di controllo del giudice sulla “fattibilità” del concordato preventivo - 3.2. La definizione degli atti in frode rilevanti ai fini della revoca dell’am­mis­sione al concordato preventivo - 3.3. Le ragioni dell’orientamento giurisprudenziale relativo agli “altri atti in frode” - 3.4. Il potere di revocare il concordato in presenza di un voto espresso in maniera consapevole dai creditori - 3.5. Il rapporto tra “atti in frode” e “abuso del diritto” - 4.  Il commento. Conclusioni e possibile utilizzo del­l’azione di responsabilità nei confronti degli amministratori - NOTE


1. Il caso

Le sentenze in commento affrontano la questione della valutazione degli atti in frode compiuti dal debitore, ai sensi dell’art. 173 legge fall., ai fini della revoca dell’am­missione al concordato preventivo. Nel caso deciso da Cass. n. 12533/2014, la società debitrice, ricorrente in Cassazione, censurava il decreto con cui il Tribunale aveva respinto l’omologazione del concordato preventivo, qualificando determinati atti quali “atti in frode” ai sensi dell’art. 173 legge fall., idonei a determinare l’interruzione del­­la procedura. Gli atti in questione riguardavano, oltre all’intestazione del 99 per cento delle quote ad una signora disinteressata all’andamento della società, mere irregolarità, avvenute negli anni della crisi di im­presa, consistenti in “mancate presentazioni e approvazioni di bilanci” e “irregolare tenuta dei registri contabili”. I ricorrenti denunciavano altresì la violazione, da parte del giudice di merito, degli artt. 162, 2° comma, 173 e 180 legge fall., posto che, in assenza di opposizioni da parte del ceto cre­ditorio, sarebbe preclusa al giudice, la possibilità di qualificare determinati atti quali atti in frode. Nella prospettiva della società ricorrente, un intervento di questo tipo da parte del giudice si risolverebbe, evidentemente, in un giudizio di merito ormai precluso dalla nuova disciplina legislativa. Secondo lo spirito delle recenti riforme, il ruolo del giudice, soprattutto in assenza di opposizioni, consisterebbe in un mero riscontro formale della correttezza dei dati e dei documenti presentati nel corso della procedura. Le scelte riguardanti il merito spetterebbero, invece, solo ai creditori, adeguatamente informati e messi in condizione di manifestare la propria volontà in modo consapevole. La Suprema Corte ha invece stabilito che il giudice non può limitarsi ad un controllo formale sulla procedura, ma, pur in assenza di opposizioni dei creditori, deve negare l’omologazione in presenza di circostanze che è in grado di rilevare e che implicherebbero la revoca dell’ammissione del concordato preventivo (atti in frode o la mancanza della condizioni di ammissibilità, accertata nel corso della procedura). La Cassazione ha ritenuto tuttavia il ricorso fondato sotto il profilo della qualificazione degli altri atti in frode ai sensi [continua ..]


2. La normativa di riferimento

Le sentenze in commento affrontano la questione della valutazione degli atti in frode compiuti dal debitore, ai sensi dell’art. 173 legge fall., ai fini della revoca dell’am­mis­sione al concordato preventivo. L’art. 173 legge fall. [3] com’è noto, disciplina il procedimento incidentale della revoca del concordato preventivo, su iniziativa del com­missario giudiziale, nel caso in cui que­st’ultimo “accerti” il compimento da parte del debitore di atti volti a compromettere la corretta e consapevole formazione della volontà dei creditori, compiuti antecedentemente o successivamente all’apertura della procedura, quando tali atti comportino il venir meno delle condizioni di ammissibilità [4]. Un dato dal quale muovere consiste nel ritenere che l’elenco contenuto nella norma non abbia carattere tassativo, in virtù della presenza della citata previsione sugli “altri atti in frode” che svolge la funzione di clausola di salvaguardia.


3. I precedenti giurisprudenziali e la dottrina

3.1. Il potere di controllo del giudice sulla “fattibilità” del concordato preventivo

Le pronunce riportate contribuiscono a chiarire l’estensione dell’ambito di applicazione della disciplina, e si pongono sulla scia del significativo indirizzo giurisprudenziale inaugurato dalle Sezioni Unite nel 2013, che ha messo in risalto l’esigenza di tenere conto degli interessi dei soggetti ipoteticamente non aderenti alla proposta, ma comunque esposti agli effetti di una sua non condivisa approvazione, finendo per accentuare i margini di intervento del giudice in chiave di garanzia. La prima questione affrontata da Cass. n. 12533/2014 attiene ai limiti di intervento della Corte di merito in sede di controllo sulla procedura in mancanza di opposizioni da parte dei creditori. Sul punto, come detto, è recentemente intervenuta la Suprema Corte a Sezioni Unite, la quale ha riconosciuto la competenza del giudice di esercitare il controllo sulla fattibilità del concordato preventivo e ha delineato i contenuti del relativo giudizio. In questa sede, giova soltanto ricordare che, secondo i giudici di legittimità, il giudizio di fattibilità consiste in una valutazione prognostica circa la realizzabilità del piano nei termini prospettati e l’adempimento da parte dell’imprenditore [5]: esso coinvolge due valutazioni, una sulla fattibilità “economica” e l’altra sulla fattibilità “giuridica” [6]. Il giudizio sulla fattibilità giuridica compete al giudice, chiamato a valutare la realizzabilità sul piano legale della proposta. Volendo utilizzare un esempio addotto dalle Sezioni Unite, sarebbe inammissibile – e, quindi, “non fattibile” da un punto di vista giuridico – un piano che preveda la cessione di beni altrui. Il suddetto giudizio spetta al giudice del merito poiché, nonostante l’accentuazione del carattere privatistico della procedura, con la riforma non sono stati eliminati gli elementi pubblicistici “suggeriti” – riprendendo i termini adoperati dalle Sezioni Unite – “dall’avvertita esigenza di tener conto anche degli interessi di soggetti ipoteticamente non aderenti alla proposta, ma comunque esposti agli effetti di una sua non condivisa approvazione, ed attuati mediante fissazione di una serie di regole processuali inderogabili, finalizzate alla corretta formazione dell’accordo tra debitore e creditori, nonché con il potenziamento dei [continua ..]


3.2. La definizione degli atti in frode rilevanti ai fini della revoca dell’am­mis­sione al concordato preventivo

La questione principale su cui si soffermano i giudici di legittimità attiene quindi alla definizione degli “altri atti in frode”, di cui all’art. 173, 1° comma, legge fall. Eppure, la giurisprudenza fallimentare tende a non discostarsi dalle fattispecie individuate dal legislatore, tralasciando un’inter­pre­tazione sistematica che tenga conto del concetto di frode in uso in altri settori dell’or­di­na­mento. Secondo una prima definizione, l’atto in frode è un atto doloso che pregiudica le ragioni dei creditori [10]. Ovviamente, essendo difficile immaginare che un soggetto nel settore del diritto fallimentare possa compiere un atto al solo fine di ledere prerogative altrui, appare condivisibile la tesi secondo cui l’atto in frode è anche quello compiuto dal debitore al fine di ottenere un vantaggio, con la consapevolezza di arrecare un danno alle aspettative dei propri creditori [11] (ad esempio, alla semplice garanzia patrimoniale di cui all’art. 2740 c.c.). L’atto in frode disciplinato dall’art. 173 legge fall. non sembra coincidere integralmente con la nozione di carattere generale. Come si è detto, la disposizione prevede infatti alcuni casi da considerare rilevanti per la revoca del­l’ammissione al concordato (occultamento di parte dell’attivo, mancata denuncia di crediti, esposizione di passività insussistenti), offrendo al giudice un margine di discrezionalità con riguardo all’indivi­dua­zione degli altri atti in frode. Dalla casistica si evince come l’elemento che accomuna gli atti menzionati dalla norma sia l’ido­neità a determinare un’errata percezione della realtà da parte dei creditori, facendo sì che la volontà da essi manifestata sia viziata, in quanto non formata su dati reali [12]. In altri termini, il comune denominatore di tali atti, compiuti con dolo, si sostanzia nella capacità di trarre in inganno i creditori ed impedire che essi manifestino un voto consapevole. In questo quadro, le sentenze in commento, riprendendo alcuni precedenti in materia, hanno affermato che, ai fini della revoca, deve considerarsi atto in frode qualsiasi atto accertato dal commissario giudiziale e quindi da questi “scoperto”, essendo prima ignorato dagli organi della procedura o dai creditori. Infatti, la [continua ..]


3.3. Le ragioni dell’orientamento giurisprudenziale relativo agli “altri atti in frode”

L’indirizzo giurisprudenziale che limita gli atti in frode a quelli volti ad ingannare il ceto creditorio, generando un’errata percezione della realtà, si giustifica soprattutto in virtù delle nuove finalità della disciplina del concordato preventivo, più attenta agli interessi delle parti private coinvolte. Espunto dalla legge fallimentare il giudizio di meritevolezza, legittimato ad accedere alla procedura non è soltanto l’imprenditore “onesto ma sfortunato”, ma ogni imprenditore, indipendentemente dalle ragioni del dissesto [21]. L’ordinamento dovrebbe dunque tendenzialmente disinteressarsi dei motivi che hanno determinato la crisi, rimettendo ai diretti interessati il compito di gestire autonomamente l’insolvenza [22]. Ciò anche allo scopo di favorire la prosecuzione dell’atti­vità d’impresa, posto che il valore dell’a­zien­da nel suo insieme risulta superiore a quello dei singoli beni che la compongono [23]. Peraltro, ammettendo il potere del Tribunale di revocare il concordato preventivo per condotte dolose pregiudizievoli note ai creditori, si reintrodurrebbe, nella sostanza, un giudizio di meritevolezza relativo al­l’o­pe­rato del debitore. E ove quest’ultimo venisse considerato inaffidabile, la procedura do­vrebbe arrestarsi nonostante il voto di maggioranza manifestato dai creditori. In definitiva, in presenza di fatti noti, si revocherebbe un concordato sul quale i creditori hanno espresso in modo consapevole un voto favorevole. Un’interpretazione della norma, coerente con lo spirito della riforma, potrebbe quindi adeguarsi al riferito indirizzo giurisprudenziale, che ritiene rilevanti, ex art. 173, 1° comma, legge fall., le condotte di natura dolosa, dirette a frodare le ragioni dei creditori e di tale rilevanza da compromettere l’attendibilità della proposta concordataria [24]. Le pronunce in esame tengono conto dei suddetti orientamenti giurisprudenziali, met­tendo in luce che la fattispecie da prendere in considerazione ai sensi dell’art. 173, 1° comma, legge fall., è soltanto quella avente ad oggetto fatti, ignoti ai creditori, che non hanno permesso di esprimere un voto consapevole. In questo quadro, ai fini della revoca, non interessa che l’atto fraudolento abbia cagionato un danno effettivo alle ragioni dei [continua ..]


3.4. Il potere di revocare il concordato in presenza di un voto espresso in maniera consapevole dai creditori

Oltre all’enunciazione del suddetto principio concernente l’esigenza di tutelare il voto dei creditori, ormai consolidato in giurisprudenza, le sentenze in esame contengono un quid pluris, che, pur facendo salda l’interpretazione maggioritaria, aggiunge un significativo chiarimento: il giudice può revocare l’ammissione del concordato preventivo anche nel caso in cui i creditori siano a conoscenza degli atti in frode posti in essere dal debitore ed abbiano espresso il loro voto (favorevole) in maniera consapevole. I giudici di legittimità muovono dalla considerazione, spesso presente nella giurisprudenza, secondo cui “la fraudolenza degli atti posti in essere dal debitore, se implica […] una loro potenzialità decettiva nei riguardi dei creditori, non per questo assume rilievo, ai fini della revoca dell’am­mis­sione al concordato, solo ove l’inganno dei creditori si sia effettivamente realizzato e si possa quindi dimostrare che, in concreto, i creditori medesimi hanno espresso il loro voto in base a una falsa rappresentazione”. Ne deriva, ad avviso della Suprema Corte (in Cass. n. 14552/2014), che anche ove il voto sia stato espresso in modo consapevole, perché i creditori sono stati resi edotti degli atti fraudolenti dalla relazione del commissario giudiziale, il giudice è tenuto a revocare l’ammissione al concordato preventivo. Nella motivazione si mette in luce che l’af­fermazione dell’intangibilità del concordato, una volta che i creditori hanno espresso il voto favorevole, si porrebbe in contrasto con il complessivo impianto normativo che, alla scoperta degli atti in frode, attribuisce al giudice il potere-dovere di revocare l’ammissione al concordato (senza la necessità di alcuna presa di posizione sul punto dei creditori) [27]. Ritenere che il voto dei creditori esplichi un’efficacia sanante rispetto agli atti in frode compiuti dal debitore creerebbe un’incongruenza della disciplina, poiché in quest’ottica, come affermato dai giudici di legittimità, “sarebbe stato logico che il legislatore avesse previsto ugualmente la possibilità di dar corso alla procedura, almeno sino all’adunanza dei creditori, così da consentire a costoro di esprimere il loro voto alla luce dei fatti scoperti ed illustrati dal commissario giudiziale”. Ma [continua ..]


3.5. Il rapporto tra “atti in frode” e “abuso del diritto”

Non può infine tacersi che per risolvere ipotesi in cui i creditori erano a conoscenza della condotta del debitore, la giurisprudenza ha in alcuni casi fatto ricorso al principio (del divieto) dell’abuso del diritto. Al fine di garantire maggiore certezza nelle applicazioni giurisprudenziali, sembra tuttavia doversi promuovere un’estensione del campo di applicazione dell’art. 173 legge fall. [36]. Sul punto, Cass., n. 14552/2014 non offre indicazioni univoche in quanto si limita ad affermare il principio di diritto riassunto nella massima, “a prescindere dal­l’in­quadramento dell’istituto in esame nella figura generale dell’abuso del diritto”. Uno sguardo alla casistica può agevolare la comprensione del problema. La pronuncia Cass., n. 13817/2011, ripresa dalle sentenze in commento, ha affermato che nei casi in cui i creditori siano a conoscenza degli atti posti in essere dal debitore e abbiano espresso consapevolmente il proprio voto, residua unicamente la possibilità di invocare il principio dell’abuso del diritto [37]. In presenza di una condotta abusiva che resterebbe altrimenti impunita, il concordato non sarebbe ammissibile in quanto “rappresenterebbe il risultato utile della preordinata attività contraria al richiamato principio immanente nell’ordinamento” [38]. Ciò si verifica nel caso di atti compiuti dal debitore allo scopo di costringere i creditori ad accettare il concordato preventivo, quale migliore soluzione praticabile, rispetto al­l’i­po­tetico fallimento. Tale condotta (nota al ceto creditorio) implica, secondo la richiamata sentenza, un uso abusivo dello strumento concordatario volto a porre il debitore in una posizione di indebito vantaggio a scapito dei creditori, non punibile, in base all’art. 173 legge fall., nei casi in cui i creditori siano a conoscenza degli atti posti in essere dal debitore. L’esigenza avvertita dalla Suprema Corte è di non lasciare impuniti i suddetti comportamenti che, ove sussistenti, devono determinare l’interruzione della procedura. Non potendo applicare direttamente l’art. 173 legge fall., la soluzione scelta dai giudici di legittimità per contrastare usi opportunistici degli strumenti disciplinati dall’or­di­namento giuridico consiste nel richiamare il divieto di comportamenti abusivi riconducibile al [continua ..]


4.  Il commento. Conclusioni e possibile utilizzo del­l’azione di responsabilità nei confronti degli amministratori

Senza alcuna pretesa di trarre conclusioni definitive, in considerazione delle continue evoluzioni normative e giurisprudenziali che investono la materia, in presenza di un comportamento scorretto del debitore, che voglia avvantaggiarsi indebitamente attraverso lo strumento deflattivo a discapito dei creditori, la revoca dell’ammissione al concordato preventivo appare il rimedio più adeguato, utilizzabile indipendentemente dalla conoscenza o meno del fatto del debitore da parte dei creditori. Le decisioni Cass., n. 14552/2014 e Cass., n. 12533/ 2014 sembrano muoversi nella descritta direzione e potrebbero inaugurare un nuovo orientamento giurisprudenziale che sanzionando gli atti in frode, risulti più attento agli interessi coinvolti nella procedura e alla salvaguardia delle finalità del concordato. Come si è già indicato, al di là della salvaguardia dell’autonomia privata nella fase della crisi d’impresa, l’interesse manifestato dalle sentenze in commento sembra quello di disincentivare il compimento di atti fraudolenti, evitando che il debitore si avvantaggi ai danni dei creditori. Tuttavia, tenuto conto delle ragioni delle riforme che di recente hanno investito la legge fallimentare – le quali, indubbiamente, da un lato, mirano alla conservazione degli effetti del concordato e ad accrescere il “peso” della volontà dei soggetti coinvolti nella procedura, dall’altro, attenuano gli aspetti pubblicistici che caratterizzavano la disciplina previgente – si rende necessaria una precisazione. Posto che tale nuova concezione del concordato non può legittimare comportamenti scorretti da parte dell’im­prenditore insolvente, se è corretto ritenere che l’ammissione del concordato preventivo debba essere revocata nel caso in cui i comportamenti fraudolenti vengano accertati dal curatore fallimentare e, ciononostante, taciuti dal debitore, potrebbe invece escludersi la revoca in presenza di un pentimento del debitore, il quale una volta iniziata la procedura dia atto del proprio comportamento scorretto, offrendo esaustive in­formazioni ai fini del voto dell’assem­blea. In termini generali, un adeguato contemperamento tra le esigenze di natura economica, relative alla conservazione degli effetti del concordato, e quelle di giustizia, concernenti il trattamento del soggetto (o dei soggetti) che ha(nno) posto in [continua ..]


NOTE