Rivista di Diritto SocietarioISSN 1972-9243 / EISSN 2421-7166
G. Giappichelli Editore

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Sez. II – Osservatorio di diritto penale societario (di Giandomenico Salcuni)


SOMMARIO:

1. Premessa. - 2. I modelli organizzativi: fra onere e obbligo. - 3. Le diverse concezioni della responsabilità da reato degli enti e il risvolto sui modelli organizzativi. - 4. L’imputazione soggettiva. - 5. Imputazione soggettiva e reato degli apicali. - 6. Il valore della clausola dell’agire fraudolentemente. - 7. La compatibilità dell’agire fraudolentemente ed i reati-presupposto colposi. - 8. Linee guida per un modello efficace? - 9. Ampiezza del potere di controllo. - 10. Conclusioni: il ruolo (imprescindibile) del giudice? - NOTE


1. Premessa.

L’introduzione della responsabilità da reato degli enti, ad opera del d.lgs. n. 231/2001, ha suscitato numerosi dubbi interpretativi. Nel presente saggio, si prenderà in esame il metro di valutazione dei modelli organizzativi, che rappresentano “l’impervia via” che consente all’ente di andare esente da responsabilità nell’ipotesi di reato commesso da un soggetto apicale [1]. La giurisprudenza di legittimità, come constateremo in seguito, ha assunto un orientamento rigorista, che svilisce il ruolo dei modelli organizzativi. In altri termini, la giurisprudenza giunge, con un ragionamento assiomatico, a sostenere che se è stato commesso un reato sussiste un deficit organizzativo, cioè le misure adottate dall’ente per impedire la realizzazione del reato sono inidonee [2]. Ci si limita, dunque, alla comparazione in astratto tra il modello organizzativo ed il tipo di reato [3]. Nihil novi sub soli, verrebbe subito da proferire, in effetti ciò sembra richiamare alla mente lo schema argomentativo del post hoc propter hoc [4]. Del resto, la scommessa sulla riuscita pratica dei modelli organizzativi era abbastanza azzardata, perché era facile prevedere, come poi in effetti sembra sia accaduto, che la giurisprudenza avrebbe trasferito sul piano della colpa d’organiz­zazione gli arnesi concettuali utilizzati nel ricostruire la colpa generica [5]. Si pretermette, dunque, una chiara indicazione del legislatore che ha posto come presupposto della responsabilità dell’ente “l’inosservanza di regole cautelari procedurali (o protocollari)” [6], come causa dell’evento-reato.


2. I modelli organizzativi: fra onere e obbligo.

I modelli di organizzazione e gestione sono preordinati ad evitare la commissione di reati da parte di soggetti intranei all’ente, ed assolvono ad una funzione di esclusione della pena e/o di attenuazione della stessa [7]. La Relazione al d.lgs. n. 231/2001 li qualifica come onere per l’ente [8], tuttavia, il regolamento dei mercati di Borsa Italiana, alcune normative regionali e l’estensione della responsabilità agli illeciti colposi [9] fanno apparire tale qualificazione impropria. Il ruolo dei modelli comportamentali coincide, infatti, col dovere di non commettere illeciti, il che porta parte della dottrina a ritenerli di fatto obbligatori [10]. Ad avvalorare la natura obbligatoria del modello è altresì il requisito dell’elusione fraudolenta che, insieme a tutti gli altri presupposti dell’art. 6 (v. infra), svolge una funzione esimente della responsabilità dell’ente. Se non vi fosse il requisito dell’elusione fraudolenta e la responsabilità si basasse sulla sola idoneità del modello, nessun ente lo adotterebbe o si sobbarcherebbe i costi per adottarlo ed attuarlo, dal momento che non è imprevedibile un atteggiamento scettico e critico di chi poi dovrà giudicare l’ente. In definitiva, se non vi fosse il requisito dell’elu­sione fraudolenta, si rischierebbe una forma di imputazione oggettiva [11]; invece la sua presenza fornisce contenuto ed arricchisce il ruolo dei modelli, contribuendo de facto ad “incentivare” le imprese ad adottarli, perché i modelli risulteranno il parametro su cui misurare la condotta elusiva dell’organo apicale. Continuare a considerare l’adozione di un modello organizzativo quale onere contribuisce, anche soltanto da un punto di vista culturale, a depotenziarne il ruolo, e a favorire orientamenti che frustrano la ratio di fondo del d.lgs. n. 231/2001. Se di onere davvero si trattasse, logica conseguenza sarebbe che nessuna attività di controllo preventivo o successivo potrebbe essere esplicata. L’accertamento della colpevolezza dell’ente non può certo risiedere in un elemento non obbligatorio. Né varrebbe replicare che la sua assenza, in presenza della commissione di un reato da parte di un organo apicale, è un indizio di colpevolezza, dal momento che ciò violerebbe [continua ..]


3. Le diverse concezioni della responsabilità da reato degli enti e il risvolto sui modelli organizzativi.

Le difficoltà che si incontrano circa il valore scusante dei modelli, evidenziate già da una certa incomunicabilità fra una parte della giurisprudenza di merito [15] e quella di legittimità [16], sono dovute al fatto che nella disposizione dell’art. 6 del d.lgs. n. 231/2001 convivono due diverse concezioni della responsabilità dell’ente non ancora “amalgamate” [17], ammesso che di esse sia possibile e/o opportuno tentare “un’amalgama” [18]. Cioè a dire: l’art. 6 traduce, nello stesso dettato normativo, sia la visione di coloro che per gli apici avrebbero preferito un modello di imputazione più oggettivo (rectius soggettivo ma attenuato), cioè accontentandosi del rapporto di immedesimazione organica [19]; sia la visione di chi ritiene, di contro, che l’imputazione per gli apici e per i sottoposti non debba differire, entrambe devono infatti rispondere al criterio soggettivo della colpevolezza di organizzazione [20]. Quest’ultima è la soluzione, come noto, adottata dal d.lgs. n. 23182001, ma la norma frutto di tale compromesso [21] non brilla per precisione [22]. In questa indeterminatezza del quadro normativo, la discrezionalità (interpretativa) del giudice ha gioco facile nel porre in non cale le fonti di autonomia privata. Il legislatore avrebbe dovuto spendere qualche risorsa in più, dal momento che si è limitato ad individuare “lo scheletro del modello” [23] preventivo, ma poi ha rimesso la redazione dei contenuti interamente ai vertici aziendali. Ovvio che lo schema che il legislatore avrebbe dovuto adottare non poteva essere mai preciso, concreto, pena il non adattarsi alle varie realtà a cui il d.lgs. n. 231/2001 deve attagliarsi, ma il legislatore avrebbe dovuto emanare coordinate legislative per la redazione dei modelli, e prevedere attività di consulenza e di monitoraggio da parte di autorità di controllo [24]. È stato probabilmente concesso troppo al privato, il quale, il più delle volte (almeno se si pensa alla piccola e media impresa), può non avere gli strumenti necessari per rispettare un obbligo così complesso [25]. Le difficoltà connesse alla redazione del modello inficiano, poi, l’effetto di deterrenza della sanzione pecuniaria ed interdittiva [continua ..]


4. L’imputazione soggettiva.

L’imputazione soggettiva costituisce l’aspetto critico della responsabilità degli enti [27]. Il legislatore è ricorso alla concezione normativa della colpevolezza [28] ed ha preferito dividere i criteri dell’imputazione soggettiva, a seconda che il reato sia stato commesso da soggetti in posizione apicale (art. 6) o da sottoposti (art. 7). Il reato deve essere espressione di una politica aziendale dolosa che vede di “buon occhio” anche la commissione di illeciti, o quantomeno derivare da una colpa di organizzazione [29]. La colpevolezza dolosa dell’ente è però difficilmente riscontrabile nella prassi, anche se non pare del tutto estranea all’impianto normativo del d.lgs. n. 231/2001, laddove all’art. 16 si fa riferimento ad un ente che è già stato condannato, almeno tre volte negli ultimi sette anni. Questa norma si riferisce ad un ente recidivante piuttosto refrattario alla cultura della legalità d’impresa. Ad ogni modo, la colpevolezza dolosa è ipotesi residuale e a volte rischia di confondere l’impresa lecita, alla quale il modello si ispira, dall’impresa illecita, alla quale a volte impropriamente il modello è stato esteso [30]. La colpevolezza colposa è invece la regola nel modello 231 e indica il rimprovero all’ente per non essersi dotato di quelle misure adeguate a impedire i reati [31]. Parte della dottrina afferma di essere in presenza di una colpa per la “condotta di vita aziendale” [32]. La disciplina dell’imputazione soggettiva del reato per i sottoposti (art. 7, 1° comma) si basa sull’inosservanza degli obblighi di direzione o vigilanza [33].In questa sede non ci si occuperà di tale tematica, connotata da un ruolo centrale che assume il modello.


5. Imputazione soggettiva e reato degli apicali.

L’imputazione soggettiva pei i reati commessi dagli organi apicali è disciplinata dall’art. 6, che non definisce in positivo i requisiti che fondano la responsabilità dell’ente, ma li prevede in negativo, attraverso una inversione dell’onere della prova [34]. Tale scelta è frutto del citato compromesso, fra le diverse visioni dell’imputazione soggettiva del reato commesso dagli apici all’ente. Se in effetti il paradigma societario preso come modello è quello con amministratore unico, oppure la piccola e media impresa (tipico del tessuto economico nazionale), allora è evidente che il reato commesso è espressione della volontà dell’ente per il tramite dell’amministratore. È innegabile però che la realtà societaria sia variegata e che, se ancora oggi il tessuto economico nazionale è caratterizzato da piccole e medie imprese, non mancano società di grandi dimensioni, gruppi societari, in cui i poteri gestori non sono affatto concentrati in un’unica persona o in pochi soggetti. Il sistema di governance societaria risulta in questi casi più complesso, di modo che non è più così scontato o automatico che il reato commesso sia sempre frutto della volontà della governance [35]. Per creare un sistema di imputazione che fosse davvero tale anche in queste ultime ipotesi, si è preferito uni­ficare i modelli di imputazione per sottoposti ed apici, anziché prevedere, ad esempio, diversi criteri di imputazione soggettivi a seconda della struttura societaria. Da qui sorgono le problematiche già anticipate, perché l’inversione dell’onere della prova si spiega partendo dal presupposto che il reato realizzato dagli apici è sempre espressione della volontà dell’ente, a meno che ricorrano le condizioni dettate dall’art. 6. Dunque, il modello di colpevolezza relativo agli apici, come si evince anche dalla Relazione, non è tanto la colpa di organizzazione, ma più quella colpevolezza dolosa propria della tesi dell’immedesimazione organica fra ente e organi apicali. In altri termini, nel caso di reato commesso dal vertice, il requisito “soggettivo” è soddisfatto dalla condizione che il vertice esprime, fino a prova contraria, la politica dell’ente. La soluzione [continua ..]


6. Il valore della clausola dell’agire fraudolentemente.

Per alcuni, questa disposizione confermerebbe la tesi della colpa d’organizzazione [44], dal momento che se l’autore per realizzare il reato non ha agito fraudolentemente, vuol dire che il modello è stato in concreto inidoneo, essendo quindi sempre esigibile una maggiore diligenza da parte dell’ente. Del requisito in esame può comunque fornirsi almeno una duplice lettura, in chiave soggettiva o oggettiva. Alcuni autori [45] prospettano dell’elusione fraudolenta una lettura soggettiva [46], cioè essa si estrinseca attraverso un dolo di frode dell’apice che agisce con l’in­tenzione di eludere i modelli organizzativi. Si tratterebbe di una soluzione, se non proprio equivalente ad una interpretatio abrogans, quantomeno riduttiva, capace però di far dipendere l’esenzione da responsabilità esclusivamente sulla valutazione soggettiva dell’esigibilità o meno del comportamento conforme da parte del­l’ente. In questo senso sono orientate le sentenze di assoluzione della giurisprudenza di merito [47]. La valutazione di idoneità del modello si fonda, dunque, sull’esigibilità del comportamento osservante la norma, non potendosi, ad esempio, pretendere dall’ente l’aggiornamento del modello volto a prevenire quel preciso reato in tempi brevissimi [48]. In altri casi, l’esclusione della responsabilità dell’ente passa attraverso un argomento volto a formalizzare, in un certo senso, il parametro sostanziale dell’esigi­bilità, vale a dire l’adozione di un sistema di gestione della sicurezza secondo lo standard OHSAS 18001 del 2007, oppure, secondo le linee guida [49] o i codici di autodisciplina [50] di Borsa Italiana. La tesi soggettivista è suggestiva, ma non più argomentabile per due ragioni. La prima ragione, non del tutto insuperabile (v. infra), fa leva sull’estensione della responsabilità ai reati colposi, di modo che diventa difficile immaginare la compatibilità fra un dolo così intenso (c.d. dolo di frode) e i reati presupposto a base colposa. La seconda ragione consiste nel fatto che la tesi soggettivista presta il fianco all’aporia connessa alla differenza delle conseguenze del medesimo comportamento elusivo, a seconda che sia connotato da dolo [continua ..]


7. La compatibilità dell’agire fraudolentemente ed i reati-presupposto colposi.

L’elusione fraudolenta dei modelli sembra incompatibile con i reati colposi [69], tuttavia non lo è perché la scusante riguarda l’illecito dell’ente e non i reati-pre­supposto. In altri termini, l’ente risponde per non aver impedito i reati-pre­supposto a causa di un difetto colposo di organizzazione. La colpa dell’ente è, pertanto, diversa per natura e presupposti dalla colpa della persona fisica che commette il reato presupposto. Dal punto di vista criminologico, non è irreale immaginare forme di elusione fraudolenta delle misure volte ad impedire reati colposi [70]. Anzi, la natura colposa della responsabilità dell’ente giustifica la scusante in esame, che opera laddove vi sia un comportamento dell’apice che fuoriesce dalla possibilità di previsione e prevenzione dell’ente, e che spezzerebbe così il legame tra organo apicale ed ente. Il legislatore, nel tipizzare la scusante, ha in mente dunque un ente che non può impedire il reato presupposto, cioè un ente che pur dotandosi di un modello in astratto (cioè secondo le generalizzazioni del senso comune) efficace, in concreto, per diverse ragioni (estesa dimensione dell’azienda, ampio novero dei settori a rischio-reato, costi in concreto praticabili, livello di tecnologia al momento a disposizione) risulta non del tutto appagante [71]. In tale ipotesi, l’aggiramento del modello è un fatto in astratto prevedibile, ma in concreto non impedibile. È possibile quindi ravvisare margini di operatività della prova liberatoria, allorché si ipotizzi un modello “ragionevole”, affiancato da un efficiente organo di vigilanza.


8. Linee guida per un modello efficace?

La giurisprudenza ha tentato di fornire alcune indicazioni per poter giudicare efficace un modello organizzativo. La difficoltà principale nella redazione dei modelli e che comporta spesso la loro scarsa rilevanza processuale in chiave assolutoria è dovuta alla loro astrattezza. Per la giurisprudenza, un modello non può considerarsi idoneo a prevenire i reati presupposto se: a) rispetto alle aree sensibili non contenga protocolli, procedure e previsioni specifiche e concrete, cioè regole protocollari o procedurali funzionalmente dirette a garantire il conseguimento di determinati risultati [72]; b) individuate le aree di rischio, non si determinino specifici protocolli di prevenzione, oppure, qualora previsti non si sanzionino le violazioni o non si provveda ad un costante e periodico controllo di queste regole preventive; c) non si prevedano sanzioni disciplinari nei confronti dei soggetti che, colposamente, non abbiano saputo individuare o eliminare violazioni del modello e/o la realizzazione dei reati presupposto; d) non si prevedano protocolli di ricerca ed identificazione dei rischi quando già siano emersi segnali di allarme; e) non si disciplini un obbligo di riferire all’OdV notizie relative a pregresse violazioni del modello o alla consumazione di reati [73]; f) non si prevedano attività di formazione sulle regole del modello; g) non si prevedano corsi di formazione del personale; h) non si prevedano controlli di frequenza e di qualità sul contenuto dei programmi. In particolare, poi, è doveroso porre l’accento sull’importanza del sistema dei controlli [74]. Sorge però l’interrogativo: quis custodiet ipsos custodes? L’art. 6, 1° comma, lett. b) risponde individuando il soggetto deputato al controllo in un organismo autonomo [75] e dotato di poteri di iniziativa e controllo. Dato che l’elusione riguarda le prescrizioni del modello, all’interno di un minisistema dove il “custode” si identifica nell’organismo di vigilanza (c.d. OdV), si suppone che la frode debba indirizzarsi verso quest’ultimo [76]. L’idoneità del modello dipenderà quindi dall’ampiezza dei poteri conferiti all’or­ganismo di vigilanza. L’OdV deve in concreto avere la possibilità di impedire la commissione di [continua ..]


9. Ampiezza del potere di controllo.

Non basta prevedere un organismo di vigilanza misto, o addirittura esterno all’ente, se poi non si definisce il potere e l’ampiezza del controllo che l’OdV deve operare. Una tesi, patrocinata dalla Cassazione, predilige una forma di controllo “totale” su tutte le attività a rischio-reato [82]. La tesi è suggestiva ma, di contro, si replica che rischia di risultare irrealistica, sol che si pensi al fatto che le segnalazioni dell’OdV sono rivolte a quei soggetti apicali da tenere sotto controllo [83]. È possibile, forse, anche in questo caso, individuare una via intermedia che concili le opposte visioni. Nel far questo è opportuno premettere che l’OdV deve essere oggetto privilegiato di una serie di flussi informativi, che garantiscano la base cognitiva su cui l’Odv deve operare. Per ottenere questo risultato, è necessario prevedere obblighi informativi nei confronti dell’OdV, in capo ai responsabili delle aree a rischio reato, nonché la previsione di autonome sanzioni disciplinari per la violazione di detti obblighi [84]. La circolazione delle informazioni è elemento essenziale, perché senza sapere cognitivo non è pensabile alcuna forma di controllo. Nel Testo Unico della Finanza, il Collegio Sindacale, pur non potendo svolgere il ruolo di organismo di vigilanza (salvo quanto previsto dalla legge 12 novembre 2011 n. 183) [85], possiede una relazione informativa biunivoca con l’OdV, anzi, in alcuni regolamenti circa le modalità di svolgimento del controllo dell’OdV, quest’ultimo deve sì riportare i propri risultati al massimo vertice esecutivo, ma nel caso emergano reati commessi dal vertice esecutivo, l’OdV riferisce al Comitato di Controllo Interno, al Consiglio di Amministrazione e al Collegio Sindacale. Il moltiplicarsi dei soggetti destinatari delle informazioni circa eventuali segnali di allarme (c.d. red flags) [86], può costituire un potenziale deterrente per operazioni opache. Senza addentrarci, infatti, sulla problematica relativa alla sussistenza, o meno, di una posizione di garanzia gravante sui sindaci [87] o più in generale sugli organi di controllo rispetto ai reati commessi dagli amministratori [88], l’obbligo di denuncia, presente ad esempio ex art. 2409 c.c., può costituire un valido [continua ..]


10. Conclusioni: il ruolo (imprescindibile) del giudice?

Questa breve disamina sulla valutazione dell’idoneità dei modelli e sul requisito dell’elusione fraudolenta ha messo in evidenza comunque una difficoltà con cui il giudice, ma non solo, è tenuto a confrontarsi. È stato più volte evidenziato come l’esistenza di asimmetrie informative, che sono, è bene ribadirlo, la ragione per cui il legislatore non ha tipizzato la colpa dell’ente, dovrebbe far dubitare che il giudice possa colmare quelle asimmetrie informative e valutare, senza alcun ausilio, l’idoneità dei modelli organizzativi [90]. Le strade a questo punto sono due, salvo voler ritenere sempre inidoneo il modello, cioè 1) affidarsi ad un perito o al consulente di parte per valutare l’idoneità del modello; 2) prevedere, ma questo grazie all’intervento del legislatore, una presunzione relativa di idoneità del modello stesso [91]. Il non conferire un eccessivo potere di valutazione all’organo giudicante, perché privo delle reali competenze, è pro­babilmente rinvenibile nella stessa ratio del decreto 231, laddove, sempre al­l’art. 6, inserisce un’apposita previsione che riguarda i codici di comportamento promossi dalle associazioni di categoria. Questi ultimi possono costituire la formalizzazione di buone pratiche di settore, in grado di aiutare il giudice nell’esaminare i profili di colpa dell’ente. Certo, ad oggi, non può che condividersi l’assunto secondo cui fare “… affidamento sull’efficacia esimente del modello di organizzazione e gestione, ancorché adottato in conformità delle linee-guida, resta il principale ostacolo che incontra la cultura della legalità aziendale. Il sistema, infatti, non offre all’ente che investe in prevenzione dei reati nessuna garanzia che gli sforzi profusi valgano a metterlo al riparo da responsabilità. L’esito, rimesso interamente al giudice, non è prevedibile ex ante, specie ove si muova dall’aspettativa di un’ef­ficacia preventiva particolarmente elevata, di per sé realisticamente difficile da coltivare” [92]. Nel tentativo di neutralizzare o quantomeno ridurre il potere discrezionale del giudice, nel valutare i modelli, si inserisce lo “Schema di disegno di legge di modifica del decreto legislativo 8 giugno [continua ..]


NOTE