Rivista di Diritto SocietarioISSN 1972-9243 / EISSN 2421-7166
G. Giappichelli Editore

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La disciplina delle difese contro le OPA (e le non-OPA) (di Luca Enriques)


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SOMMARIO:

1. Introduzione. - 2. L’evoluzione della disciplina - 3. Uno sguardo pių ampio - 4. Il giudizio: facite ammuina? - 5. Difese contro le non-opa? - NOTE


1. Introduzione.

Durante una crisi, i governi devono “fare qualcosa”, anche quando nulla di utile vi è da fare. In questi casi, “fare ammuina” può essere la strategia più efficace ed efficiente per evitare i danni che movimenti non abbastanza falsi potrebbero determinare [[1]]. La domanda a cui cercherò di rispondere con queste note è se questa metafora si adatti anche agli interventi del legislatore italiano, nel 2007-2009, in materia di difese contro le OPA ostili.


2. L’evoluzione della disciplina

Andiamo con ordine. Nel 1992 (ai tempi della precedente crisi della finanza pubblica), la prima legge italiana in materia di offerte pubbliche di acquisto optò per una passivity rule assoluta, per modernizzare il mercato azionario italiano, aprirlo nel modo più traumatico alla contendibilità. Come ebbe subito a notare Francesco Vella, l’effetto non poteva essere che di spingere all’arroccamento degli assetti di controllo, di rendere ancora più temeraria l’ipotesi di cedere il controllo al mercato creando una public company 2. Non a caso per le società privatizzate lo si fece con i limiti al possesso azionario e, nelle intenzioni almeno, con i poteri speciali del Governo in funzione antiscalata 3. Nel 1998, con il Testo Unico in materia di intermediazione finanziaria (di seguito, TU), dalla passivity rule “assoluta” si passò alla norma poi recepita nella proposta di direttiva e di matrice britannica: sulle difese decidono i soci in assemblea, mantenendosi un elemento di disfavore per le misure difensive, dato dalla necessità di raggiungere un quorum che, per le società ad azionariato diffuso, in presenza (ma allora non era ancora chiaro) di regole eccessivamente dissuasive in materia di esercizio del voto e di deleghe di voto 4, si rivelò anche all’atto pratico, nell’OPA Telecom dell’anno successivo, proibitivo 5. Sempre con il TU si introdusse una mini-regola di neutralizzazione (che si aggiungeva a quella, nell’occasione modificata, in materia di limiti al possesso azionario per le società privatizzate), la quale consentiva il recesso dai patti parasociali in presenza di un’OPA totalitaria o parziale ex art. 107 TU 6. Inoltre, si impose una durata massima di tre anni ai patti parasociali, rendendoli ex lege meno stabili nel tempo 7. Inevitabilmente, la prassi societaria si adeguò ai nuovi vincoli, privilegiando le holding ai patti laddove una coalizione si dovesse formare ex novo e puntellando i patti esistenti, ove non sufficientemente coesi, con apporti di altri soggetti, in modo da raggiungere soglie di sicurezza (si pensi al caso di RCS). Nel 2007 l’Italia recepisce la direttiva OPA con una fuga in avanti: ancora dominante la convinzione che si potesse imporre la contendibilità per decreto, il legislatore non solo confermò l’obbligatorietà della regola della neutralità [continua ..]


3. Uno sguardo pių ampio

Dal 2007 in avanti le modifiche in materia di difese non sono state le sole a incidere sul grado di contendibilità delle società quotate italiane. Alcuni interventi sono stati presi nella medesima logica protezionistico-emergenziale sponsorizzata dall’allora presidente della Consob: l’in­congrua e sospetta 19 scelta di portare per legge al 5 per cento l’incremento annuale della partecipazione dei soci tra il 30 e (ora) il 45 per cento che non fa scattare l’obbligo di offerta 20; il potere attribuito alla Consob, e per fortuna mai esercitato, di imporre soglie per la comunicazione delle partecipazioni rilevanti inferiori al 2 per cento per singole società e periodi limitati 21; l’innalzamento dal 10 al 20 per cento del limite all’acquisto di azioni proprie 22. Altri interventi nel medesimo periodo hanno però, direttamente o indirettamente, favorito la contendibilità. Si possono citare, senza seguire un ordine particolare, neppure di importanza: le norme che, agevolando la partecipazione all’assemblea dei soci (in termini di informazione pre-assembleare e soprattutto di requisiti di legittimazione, rendendo obbligatoria la record date nonché di voto per delega), agevolano la presa di delibere che meglio riflettono l’interesse della collettività dei soci quando si tratti di autorizzare tattiche difensive ovvero di decidere una contesa per l’elezione del consiglio d’amministrazione a colpi di deleghe di voto 23; alcune novità della disciplina secondaria delle partecipazioni rilevanti. In particolare: a) l’esenzione, ora concessa anche ai fondi alternativi, dalla soglia del due per cento, che consente ai fondi attivisti, i quali poi spesso premono per un trasferimento del controllo o comunque richiamano l’attenzione di potenziali scalatori sulle società in cui investono, di accumulare pacchetti maggiori a prezzi più bassi, rendendo più redditizio il relativo attivismo 24; b) la nuova disciplina della comunicazione delle partecipazioni potenziali (ossia in forma di posizioni lunghe non “fisiche”, mediante derivati): introducendo tre “basket”, essa di fatto consente di amalgamare una partecipazione effettiva o potenziale complessiva del 10 per cento (2 di partecipazioni “fisiche” più 3 di derivati da regolare mediante consegna dei titoli più 5 [continua ..]


4. Il giudizio: facite ammuina?

Premesso questo quadro, è corretto dunque dire che con gli interventi sulla passivity rule del 2008-09 il legislatore italiano ha solo fatto ammuina? O ci si preparava davvero alla battaglia? La prima tesi sarebbe vera in due casi: a) se l’art. 104 è irrilevante perché ben poche sono le tattiche difensive che, in sua assenza, gli amministratori possono adottare o sono disposti a correre il rischio di adottare 30; b) se, come Matteo Gatti ha bene argomentato in un interessante scritto recente, il contesto delle regole di diritto societario è comunque tale da attribuire agli azionisti, quale che sia la norma suppletiva in materia di difese, il potere anche di fatto di decidere sull’esito dell’OPA 31. Sul primo aspetto, si tratta di verificare se vale (anche o solo) per l’Italia la tesi di Kershaw e altri 32 secondo cui la board neutrality rule è irrilevante, perché dal resto delle norme di diritto societario derivano tali e tanti vincoli agli amministratori che, anche in assenza di quella regola, pur sempre agli azionisti essi dovrebbero (o avrebbero interesse a) rivolgersi prima di adottare una tattica difensiva. Da un lato, pur senza l’art. 104, non tutte le tattiche difensive richiederebbero l’autorizza­zione dell’assemblea: si pensi alle non secondarie eccezioni delle operazioni di incremento dell’indebitamento, di distribuzione di un acconto sui dividendi, di cessione di asset aziendali particolarmente appetiti dall’offerente. Dall’altro, è vero che ogni atto difensivo espone gli amministratori al rischio di dover risarcire il danno alla società e, nell’ipotesi peggiore, ai creditori sociali ove essa fallisca. Ma, ove la tattica difensiva non venga adottata in situazioni di tensione finanziaria e, anche in tal caso, ove non sia in grado di aggravarla, in Italia il rischio di un’azione sociale di responsabilità è talmente irrisorio da consentire di escludere che abbia un effetto paralizzante il regime della responsabilità civile degli amministratori. Ciò, naturalmente, salva la malaugurata ipotesi in cui l’opa abbia successo nonostante il compimento degli atti difensivi, poiché in tal caso il nuovo controllante potrebbe avere interesse ad agire in responsabilità nei confronti dei precedenti amministratori e salva altresì la configurabilità di una [continua ..]


5. Difese contro le non-opa?

La previsione (perlomeno previo opt-in in tal senso) di un potere di veto sulle operazioni che incidono sul controllo, accompagnata da un’esplicitazione del dovere degli amministratori di agire in tali casi nell’esclusivo interesse degli azionisti e da norme che assicurino che le relative decisioni non siano inficiate dagli interessi dei contendenti (amministratori attuali, scalatori ovvero attuali o prospettici azionisti di controllo), assicurerebbe una migliore tutela degli azionisti nei casi non solo di opa ostili ma anche di trasferimenti concordati del controllo. Sarebbe una via preferibile, in quanto più rispettosa dell’autonomia privata, alle ipotesi ora in discussione 45 di abbassamento generalizzato o selettivo, caso per caso o per una sottocategoria di società quotate, della soglia dell’opa. D’altra parte, l’attribuzione di un potere di veto in capo agli amministratori disinteressati avrebbe anche il pregio di avvicinare la disciplina di queste operazioni a quella sulle operazioni con parti correlate. Come bene hanno messo in luce Gilson e Gordon 46, il trasferimento di un pacchetto di controllo null’altro è che un’operazione in cui viene trasferito il futuro flusso di benefici privati estraibili dalla società: in altri termini, si tratta di una “meta-operazione” con parte correlata. Se ciò è vero, allora, pur non essendo possibile de lege data, estendere a queste “operazioni” la disciplina dell’art. 2391-bis c.c., e del relativo regolamento di attuazione 47, è anche vero che, nell’arco di tempo che va dall’annuncio di un’operazione di acquisizione del controllo a quello della sua esecuzione, in tutti i casi in cui la società si trovi a prendere decisioni che possono incidere sulla progettata acquisizione, non solo come ovvio si applicherà l’art. 2391 c.c., ma, perlomeno in termini di opportunità, ovvero, meglio, in vista dell’obiettivo di ridurre il rischio di responsabilità degli amministratori verso la società, sarebbe consigliabile attribuire a uno special committee composto esclusivamente da amministratori indipendenti poteri analoghi a quelli spettanti in caso di operazioni con parti correlate 48. E di qualcosa di più di una mera opportunità potrebbe trattarsi, dal punto di vista del comportamento richiesto ai singoli amministratori, [continua ..]


NOTE