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'Good faith', buona fede: verso 'nuovi doveri' degli amministratori di s.p.a.?

Alessandro Morini

Sommario:

1. Premessa. - 2. Ascesa e caduta del duty to act in good faith quale dovere autonomo degli amministratori di società per azioni nella giurisprudenza del Delaware. - 3. Conclusioni provvisorie. - 4. Premesse all'approccio comparativo all'ordinamento italiano. - 5. I constraints propri dell'ambiente giuridico-economico italiano. - 6. Il riscontro giurisprudenziale: dal caso Pavolini c. RAI alla 'procedimentalizzazione' del­l’attività consiliare o di amministrazione in genere. - 7. Note minime in tema di standard, test e clausole generali nell’ambito della 'procedimentalizzazione' della decisione: inside the 'black box' of the board’s business decision. - NOTE


1. Premessa.

L’articolazione dei doveri fiduciari degli amministratori di società per azioni ha costituito, negli ultimi trent’anni – e continua tuttora a costituire – negli Stati Uniti, uno degli argomenti centrali del dibattito giuridico nel campo del diritto societario. Tradizionalmente articolati nella diarchia rappresentata dal duty of care e duty of loyalty i doveri degli amministratori sono stati scompaginati da una decisione della giurisdizione del Delaware che, atteso l’elevatissimo numero di società ivi costituite, rappresenta, con la propria giurisprudenza, il centro motore dell’evoluzione pretoria del diritto societario americano. Gli scopi che le note che seguono sono – auspicabilmente – destinati a raggiungere possono essere così articolati. In primo luogo descrivere entro quale contesto – casistico e dottri­nale – nel­l’or­dinamento statunitense è venuto a delinearsi un autonomo dovere di buona fede degli amministratori di società, se esso abbia persistenza attuale e le critiche avanzate contro tal­e orientamento. Successivamente esaminarne i confini e la funzione con la finalità di evidenziare l’attribuzione al duty of good faith il ruolo di standard of conduct piuttosto che di standard of liability e le implicazioni, in termini funzionali, che tale qualificazione comporta con riguardo alla clausola generale implicat­a. Alla luce delle [continua ..]

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2. Ascesa e caduta del duty to act in good faith quale dovere autonomo degli amministratori di società per azioni nella giurisprudenza del Delaware.

La genesi e lo sviluppo e – forse – la decadenza di un autonomo dovere di buona fede in capo agli amministratori di società per azioni deriva integralmente da una successione di decisioni giurisprudenziale e dai relativi prodotti sull’assetto normativo dei doveri degli amministratori nel Delaware, prima; e, conseguentemente nelle altre giurisdizioni statali statunitensi. 2.1. Gli antefatti: Smith v. Van Gorkom all’alba della stagione delle acquisizioni. – Non sembra si possa dubitare del fatto che la decisione da parte della Corte Suprema del Delaware nel caso Smith v. Van Gorkom [1] possa considerarsi la causa remota dei successivi sviluppi giurisprudenziali, legislativi e dottrinali relativi – in approssimazione generale – all’articolazione dei doveri degli amministratori e – con maggiore approssimazione al tema qui in discussione – all’esi­stenza uno specifico ed autonomo dovere di buona fede in capo agli amministratori: a dimostrazione di ciò – anche senza ricorrere alla enfatica definizione di essa quale più importante decisione del XX secolo [2] – sarebbe sufficiente la citazione della bibliografia specifica che la concerne [3]. La vicenda giurisprudenziale non poteva che emergere nel contesto di una fra le attività, quella ferroviaria, che costruirono la fortuna industriale americana [4] e rimanervi anche nel succedersi del [continua ..]

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3. Conclusioni provvisorie.

Aldilà del riconoscimento della sussistenza o meno di un autonomo dovere di buona fede in capo agli amministratori di società restano alcune valenze esplicite dell’articolato dibattito nordamericano su questo tema. La prima attiene al riconoscimento che la incrementata complessità della gestione dell’im­presa conseguente alle dimensioni ed ai condizionamenti ambientali esterni rende sempre più difficile procedere ad una riduzione ad unità dei doveri che gravano sugli amministratori; cioè, in altri termini, un processo di semplificazione della complessa materia degli standard di comportamento amministrativo e del processo decisionale dei managers – per quanto proficuo dal punto di vista della teoria normativa delle decisioni [37] – si rappresenta del tutto irrealistico ove si voglia procedere sul versante della descrizione delle variabili proprie di tale processo decisionale con la finalità di elaborare un più accurato set predittivo delle scelte amministrative. Per altro verso, si deve rilevare che il tema dei doveri degli amministratori si trova all’in­crocio di un complesso di problematiche e discipline per le quali si stenta a trovare un quadro comune di analisi. Da un lato, infatti, troviamo, sul terreno più schiettamente giuridico, il contrasto tra le costruzioni – nel contesto culturale americano – del fenomeno societario sui versanti contrapposti [continua ..]

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4. Premesse all'approccio comparativo all'ordinamento italiano.

La traslazione nel contesto nazionale dei principi esaminati all’interno della evoluzione dell’ordinamento nordamericano presuppone un approccio di duplice livello; esso, per semplicità, può essere descritto come induttivo e deduttivo. Il primo di essi muove da una consolidata esperienza compiuta dalla dottrina comparatistica ed è costituito, in essenza, dalla riproposizione di fattispecie materiali identiche e dalla valutazione della relativa disciplina nei singoli ordinamenti [41]; al contrario il secondo presenta evidenti elementi costruttivistici poiché individua i confini contenutistici di un principio e ne deduce l’applicabilità diffusa muovendo dalla ricorrenza epifanica all’interno di un ordinamento giuridico determinato. Giova qui notare che il primo dei due approcci esaminati – e di cui si prospetta l’impiego – soffre, quanto all’ordinamento italiano, in confronto con quello statunitense, di alcune limitazioni ed aporie di cui è opportuno dare conto allo scopo di circoscrivere la capacità euristica della metodologia impiegata. Si è, infatti, osservato che la giurisprudenza del Delaware – che costituisce in materia societaria il benchmark di riferimento del complesso degli ordinamenti statali americani – presenta evidenti profili di caratterizzazione e di unicità. Anzitutto la circostanza che la Court of Chancery sia tuttora una corte di [continua ..]

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5. I constraints propri dell'ambiente giuridico-economico italiano.

Il contesto economico-giuridico entro il quale si colloca l’azione amministrativa delle s.p.a. non è privo di rilevanza quanto all’approccio deduttivo appena delineato. Il modello di assetto proprietario delle società italiane, indipendentemente dall’accesso o meno al mercato dei capitali, è caratterizzato per comunis opinio dalla concentrazione proprietaria che rende, quindi, possibile identificare di volta in volta soggetti capaci di esercitare il controllo capitalistico o di fatto sulle singole società; episodico è, al contrario, il fenomeno della proprietà diffusa del capitale sociale: creandosi, in tal modo, un sostanziale iato con il modello societario americano orientato in senso opposto. Sul versante giuridico non può, invece, dimenticarsi l’evoluzione storica del rapporto tra soci ed amministratori della società per azioni. Esso, infatti, procedeva, nella dimensione del Codice di Commercio del 1882, dalla relazione di puro e semplice mandato dei soci, riuniti in assemblea, a favore degli amministratori affinché dessero attuazione alle deliberazioni assunte. Solo con l’introduzione del codice civile e la diretta integrazione tra società ed impresa tale situazione subiva una prima, ma comunque incompleta, attenuazione. Ed è, infine, in tempi assai recenti, con la riforma della disciplina societaria, che si addiveniva ad una completa separazione del potere [continua ..]

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6. Il riscontro giurisprudenziale: dal caso Pavolini c. RAI alla 'procedimentalizzazione' del­l’attività consiliare o di amministrazione in genere.

Non è agevole individuare una selezione di decisioni, quantitativamente significative, che autorizzi a predicare, fuori del richiamo di stile, anche nell’ordinamento italiano, l’esistenza di un autonomo dovere di buona fede degli amministratori. Non è dunque di poco momento che, nella ridotta epifania della casistica giurisprudenziale, una delle decisioni che pongono al centro la valutazione del comportamento secondo buona fede degli amministratori attenga proprio alla procedimentalizzazione dei lavori consiliari [70]. In tale decisione la buona fede degli amministratori costituiva il parametro entro cui ridurre ad unità [71] una serie di comportamenti degli amministratori che, muovendo dal difetto di istruttoria dei lavori del collegio, si articolava nell’omissione di valutazioni esterne acquisite nel corso del procedimento, fino a sfociare nella violazione della disciplina del regolamento del consiglio di amministrazione che imponeva di trasmettere tempestivamente una documentazione idonea ad assumere la decisione [72]. Questa impostazione – che privilegia lo schema del processo attraverso cui si perviene alla decisione (e, quindi, le componenti oggettive e soggettive di tale percorso) – rappresenta una vena carsica nella giurisprudenza che, con il trascorrere del tempo, incrementa le proprie apparizioni in superficie. Si deve infatti rilevare che, sotto il mantello della verifica del rispetto da parte [continua ..]

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7. Note minime in tema di standard, test e clausole generali nell’ambito della 'procedimentalizzazione' della decisione: inside the 'black box' of the board’s business decision.

Non costituisce, ovviamente, finalità di queste brevi considerazioni sull’evoluzione del dovere di buona fede applicato all’agire degli amministratori di società per azioni negli Stati Uniti formulare osservazioni definitive, quanto piuttosto rendere noti i contorni – qui inevitabilmente complessi – di un dibattito che, rispetto alla quantità degli scritti americani, ha avuto scarsa eco nella dottrina italiana. A questo scopo, tuttavia, si potrebbe ritenere opportuno svolgere alcuni ulteriori rilievi che muovano da un più generale campo prospettico. Nel motivare tale intento si trova agevole giustificazione nel fatto che il tema fin qui brevemente analizzato appaia come una foresta di specchi: previsioni generali in ordine ai doveri degli amministratori (duty of loyalty and care) che si riempiono di contenuto mediante valutazioni in ordine alla buona fede che, a sua volta, si sostanzia di ulteriori doveri descritti tramite formulazioni generali od ulteriori clausole generali (duty of candor, duty of monitor): al­l’ap­pa­ren­za l’indeterminatezza che si estende con proiezione geometrica. Nel procedere in tale tentativo si utilizzeranno due ordini di riferimenti. Il primo procede da alcune osservazioni, ormai risalenti di cui, peraltro, non è necessario sposare il sostrato assiologico [85]. La prima, tra esse, appare quasi ovvia ed attiene alla circostanza che allorquando ci [continua ..]

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NOTE

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