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Enti del terzo settore e attività di impresa
Antonio Cetra
Il c.d. terzo settore è stato interessato da una recente riforma [attuata con i dd.lgs. 3 luglio 2017, nn. 117 (codice del terzo settore) e 112 (revisione della disciplina in materia di impresa sociale)], la quale, tra le altre cose, ha introdotto, da un lato, la categoria normativa degli enti del terzo settore e, dall’altro, ha precisato, con un significativo ampliamento rispetto al passato, le attività di interesse generale. Gli enti del terzo settore possono svolgere una o più attività di interesse generale, adottando modalità operative sia di carattere erogativo, sia di carattere economico: in quest’ultima eventualità, l’iniziativa posta in essere sarà, tipicamente, un’impresa. Il presente lavoro è dedicato agli enti del terzo settore che operano (nelle aree di interesse generale) con modalità imprenditoriale (ossia, che cedono i beni e i servizi prodotti, a fronte di un corrispettivo capace di coprire, quanto meno, i costi di produzione), cercando di dimostrare, in primo luogo, che tali enti sono incentivati ad assumere la qualifica di impresa sociale e, in secondo luogo, che gli stessi enti sono indotti a rivestire la forma giuridica societaria. Il saggio, più nello specifico, è finalizzato a mettere in rilievo come la riforma del terzo settore sembri avere legittimato (anche facendo leva sulle agevolazioni fiscali) una distinzione tra gli enti del terzo settore in base alla natura del loro oggetto, riservando alle società le attività di tipo imprenditoriale e agli enti non societari le attività di tipo erogativo.
The so-called third sector has been affected by a recent reform [implemented with Legislative Decrees no. 117 of 3 July 2017 (third sector code) and no. 112 of 3 July 2017 (revision of the regulations on social enterprise)], which, among other things, introduced, on the one hand, the regulatory category of third sector entities and, on the other hand, clarified, with a significant expansion compared to the past, the activities of general interest. Third sector entities may carry out one or more activities of general interest, adopting either “grant making” or “operating” schemes: in the latter case, the initiative will typically be an enterprise. This work is dedicated to third sector entities that operate (in areas of general interest) according to an entrepreneurial scheme (i.e., that sell the goods and services produced, in return for a consideration capable of covering, at least, the production costs). The paper tries to demonstrate, in the first place, that these entities have an incentive to take on the status of social enterprise and, in the second place, that these entities are induced to adopt on the legal form of a company. More specifically, the essay aims at highlighting that the reform of the third sector seems to have legitimized (also by leveraging tax benefits) a distinction between third sector entities according to the nature of their object, reserving to companies the entrepreneurial activities and to non-corporate entities the disbursement activities.
KEYWORDS: Third sector – Third sector entities – Activities of general interest – Various activities – Grant-making activities – Operating activities – Entrepreneurial activities – Companies – Non-corporate bodies – Ecclesiastical bodies.
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Sommario:
1. Premessa - 2. L’impresa nel codice del terzo settore - 3. L’impresa sociale e il favor verso la forma giuridica societaria - 4. Le conseguenze sulla disciplina applicabile - 5. Gli enti religiosi civilmente riconosciuti - 6. L’impresa e le attività diverse - NOTE
1. Premessa
La riforma del terzo settore – avvenuta, in attuazione della legge delega 6 giugno 2016, n. 106, attraverso i dd.lgs. 3 luglio 2017, nn. 117 (c.d. codice del terzo settore = cts) e 112 (c.d. revisione della disciplina in materia di impresa sociale = dlgsis) – ha coniato la categoria normativa degli enti del terzo settore (= ets), ricomprendendovi, al suo interno, figure giuridiche soggettive private qualificate dallo statuto singolare che esse assumono: organizzazioni di volontariato (= odv), associazioni di promozione sociale (= aps), società di mutuo soccorso, enti filantropici, reti associative ed imprese sociali (cfr. art. 4, 1° comma, cts); così come ogni associazione, riconosciuta o meno, fondazione o altro ente di carattere privato diverso dalla società non altrimenti qualificato (per non aver assunto nessuno degli statuti singolari testé menzionati), ma che rispetta i connotati identificativi di un qualsiasi ets: i) l’iscrizione nel registro unico nazionale del terzo settore, ii) il perseguimento, senza scopo di lucro, di finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale, iii) mediante lo svolgimento, in via esclusiva o principale, di una o più attività di interesse generale in forma di azione volontaria o di erogazione gratuita di denaro, beni o servizi, o di mutualità o di produzione o di scambio di beni o servizi (art. 4, 1° comma, [continua ..]
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2. L’impresa nel codice del terzo settore
Nella prospettiva d’indagine appena tracciata, la notazione dalla quale partire è che gli ets cc.dd. “tipici” (ossia, quelli che accedono ad uno statuto singolare), con l’eccezione (forse delle reti associative e sicuramente) delle imprese sociali, si caratterizzano per avere un’operatività istituzionale grant-making (talvolta per espressa disposizione normativa: v., ad esempio, le società di mutuo soccorso: artt. 1, 1° comma e 2, 1° comma, legge 15 aprile 1886, n. 3818): dando luogo, da un lato, alla produzione di beni e servizi con metodo erogativo (le odv e, eventualmente, le aps a favore della generalità; le aps e società di mutuo soccorso, a favore dei propri associati e/o dei loro familiari, in regime di mutualità) oppure, dall’altro, ad una semplice distribuzione di denaro (enti filantropici) [[3]]. Si tratta, non a caso, di enti inautonomi sul piano economico [[4]]: nel senso che la relativa sopravvivenza è legata all’acquisizione di risorse (lavorative e/o finanziarie) rese disponibili in modo spontaneo (pur beneficiando di forme di rimborso di spese effettivamente sostenute e documentate, che non abbia carattere di corrispettività rispetto alla prestazione resa: art. 33, 3° comma, cts). Proprio al fine di preservare (e non snaturare) un siffatto profilo tipologico, il dato normativo non manca, del resto, di fissare [continua ..]
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3. L’impresa sociale e il favor verso la forma giuridica societaria
Chiarito che gli ets nei quali è, realisticamente, configurabile un’iniziativa di natura imprenditoriale sono le imprese sociali, occorre, adesso, spostare l’attenzione a queste ultime, osservando, in via preliminare, che, esattamente come nel previgente d.lgs. n. 155/2006, anche il dlgsis accorda la qualifica di impresa sociale, da un lato, a tutti gli enti privati, ivi inclusi quelli costituiti nella forma del V libro del c.c. (art. 1, 1° comma, dlgsis), e, dall’altro, agli enti religiosi civilmente riconosciuti (art. 1, 3° comma, dlgsis): i primi (gli enti privati) devono svolgere l’iniziativa in via esclusiva o principale (art. 1, 1° comma, dlgsis); i secondi (gli enti religiosi) devono esercitare la medesima iniziativa solo in via secondaria (art. 1, 3° comma, dlgsis). Con riguardo agli enti privati, giova, anzitutto, prendere atto di come la riforma abbia fugato ogni dubbio in ordine al fatto che tali enti possano essere anche società (diverse dalle cooperative) [[15]]. La società appare, anzi, quanto meno prima facie, la forma giuridica (quanto meno associativa) di elezione dell’impresa sociale, quella, cioè, rispetto alla quale sembra riscontrarsi addirittura una sorta di favor da parte del legislatore. Il favor si può cogliere sotto un duplice profilo: in primo luogo, guardando al regime di destinazione dei risultati; in secondo luogo, alla [continua ..]
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4. Le conseguenze sulla disciplina applicabile
Se risulterà confermato l’accennato favor rispetto alla forma societaria, le conseguenze che dovrebbero discendere sulla disciplina e sulle relative modalità di applicazione sarebbero, principalmente, le seguenti. Dovrebbero, anzitutto, essere prive di conseguenze pratiche talune incertezze che continuano a persistere sulla disciplina applicabile all’impresa sociale in forma non societaria. Sia, qui, sufficiente ricordare l’obbligo di pubblicità d’impresa, il quale, non diversamente da quanto previsto nel previgente d.lgs. n. 155/2006 (art. 5, 2° comma), continua ad essere affidato all’iscrizione in una sezione apposita del registro delle imprese (art. 5, 2° comma, dlgsis): iscrizione che, peraltro, consente di adempiere a quella del registro unico nazionale del terzo settore (art. 11, 3° comma, cts) [[25]]. La riforma non ha appianato la questione relativa al se la menzionata iscrizione sia complementare o alternativa a quella nella sezione ordinaria [[26]]. Nel primo senso depone, comunque, la duplice circostanza che: da un lato, le iscrizioni nelle sezioni speciali (o apposite) non producono, salvo che non sia diversamente stabilito (cfr., ad esempio, per le iscrizioni delle imprese agricole, art. 2 d.lgs. 18 maggio 2001, n. 228), l’efficacia dichiarativa (art. 2193, 1° comma e 2, c.c.); dall’altro, il cts prescrive (rectius: sembrerebbe farlo) per gli ets [continua ..]
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5. Gli enti religiosi civilmente riconosciuti
Volgendo il discorso agli enti religiosi [[36]], giova muovere dalla premessa che tali enti assumono la qualifica di ets se svolgono una o più attività di interesse generale (e nei limiti di un siffatto svolgimento): attività che – come già accennato – non può, qui, non collocarsi in posizione secondaria (negli enti riguardati, l’attività principale deve coincidere con un’attività direttamente funzionale alla realizzazione dei fini religiosi o di culto). È, peraltro, ragionevole ritenere che, se l’attività di interesse generale concretamente esercitata sia un’impresa, l’ente, nei limiti di tale iniziativa, acquisisca la qualifica di impresa sociale: possono, in effetti, replicarsi, anche per gli enti in questione, le considerazioni che hanno portato ad affermare una simile conclusione a proposito di un qualsiasi ets (v., supra, § 2). Bisogna subito segnalare che qualora un ente religioso si determini a porre in essere un’attività di interesse generale (a prescindere se di natura economica o no), la relativa decisione si deve accompagnare con la costituzione di un patrimonio destinato (artt. 4, 3° comma, cts e 1, 3° comma, dlgsis). Ne discende la preliminare esigenza di comprendere in che modo debba essere intesa la disposizione che prescrive detto obbligo e, in particolare, quali siano gli effetti che attribuisce alla costituzione del [continua ..]
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6. L’impresa e le attività diverse
Resta da dedicare qualche riflessione conclusiva all’eventualità che un ets eserciti, a completamento dell’iniziativa complessivamente svolta, un’attività diversa da quella di interesse generale. Giova muovere dalla premessa che un ets può svolgere un’attività diversa ai sensi dell’art. 6 cts, soddisfacendo una duplice condizione: che l’atto costitutivo (o lo statuto) lo consenta e che l’attività si mantenga secondaria e strumentale rispetto a quella di interesse generale [[44]]. Negli ets non imprese sociali, quest’ultimo requisito deve essere fissato da un decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, tenendo conto dell’insieme di risorse, anche gratuite, impiegate in tali differenti attività rispetto a quelle utilizzate nell’attività di interesse generale (art. 6 cts). Nelle imprese sociali, invece, l’analogo requisito potrebbe essere determinato altrimenti, atteso che esso dovrebbe risultare soltanto compatibile con la circostanza che all’attività principale siano riconducibili ricavi superiori al 70% di quelli complessivi, secondo criteri di computo definiti con decreto del Ministro dello sviluppo economico, di concerto con il Ministro del lavoro e delle politiche sociali (art. 2, 3° comma, dlgsis) [[45]]. L’attenzione dei primi commentatori si è, comunque, pressoché [continua ..]
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NOTE