Rivista di Diritto SocietarioISSN 1972-9243 / EISSN 2421-7166
G. Giappichelli Editore

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Sez. II – Osservatorio sulla corporate governance - Revoca dalla quotazione in Borsa e diritto di recesso del socio (di Umberto Morera-Maurizio Sciuto)


SOMMARIO:

1. L'àmbito della problematica - 2. Una prima sensazione - 3. Il dato normativo - 4. Il dato sistematico - 5. Gli artt. 2347-quinquies c.c. e 145, 2° comma, t.u.f. - 6. La quotazione come trasformazione. Critica - 7. Conclusione - NOTE


1. L'àmbito della problematica

Si pone talvolta la questione se, a seguito della revoca dalla quotazione delle azioni emesse da una società, possa sorgere in capo ai suoi azionisti un diritto di recesso. Per chiarire l’àmbito della problematica, va subito precisato che: – per «revoca dalla quotazione» si intende la revoca del provvedimento di ammissione alla negoziazione su di un mercato regolamentato italiano da parte della Società di Gestione del Mercato (solitamente, Borsa Italiana S.p.A.; e cfr. infatti art. 62 t.u.f.; nonché artt. 2.5.1, 2.5.2, 2.5.3 del suo Regolamento); – la problematica non riguarda, quindi, qualsiasi ipotesi di esclusione dalla negoziazione di strumenti finanziari, bensì soltanto quella derivante da un provvedimento di revoca assunto unilateralmente dalla Società di Gestione del Mercato. La fattispecie è pertanto diversa da quelle in cui l’esclusione dalla negoziazione consegua ad una richiesta proveniente dalla stessa società emittente (c.d. «esclusione su richiesta»: cfr. art. 133 t.u.f.; artt. 2.5.4, 2.5.5 e soprattutto 2.5.6, Regolamento di Borsa Italiana s.p.a.; nonché art. 144 Regolamento Consob n. 11971 del 14 maggio 1999). Fattispecie diversa, questa, che pur verrà presa in considerazione, ma soltanto per verificare se anche la sua disciplina sia diversa da quella che deve ritenersi applicabile alla fattispecie qui esaminata; – la problematica riguarda poi in generale la dequotazione di azioni emesse da una s.p.a.; senza quindi che occorra occuparsi, almeno ex professo, dei casi particolari in cui vi siano diverse categorie di azioni o di altri strumenti finanziari, alcune soltanto delle quali vengano escluse dalle negoziazioni; – la problematica riguarda infine soltanto la possibilità di un diritto di recesso ex lege. Non riguarda dunque eventuali ipotesi di recesso previste dallo statuto, in aggiunta alle ipotesi legali. D’altronde, la possibilità di ampliare statutariamente l’elenco dei casi di recesso è esclusa per le società quotate [1] e quindi, già in principio, non può venire in questione nel caso di specie, che riguarda la possibilità di un diritto di recesso a seguito, appunto, di un’eventuale revoca dalla quotazione.


2. Una prima sensazione

Così definito l’àmbito del problema, è opportuno premettere una considerazione – se si vuole quasi un’impressione – basata su dati empirici. La fattispecie qui considerata, ovviamente nella prospettiva delle sue interrelazioni col diritto di recesso, risulta scarsamente approfondita dalla letteratura giuscommercialistica. La revoca dalla quotazione, in effetti, non risulta mai menzionata nei pur minuziosi elenchi delle cause di recesso dalla società per azioni redatti dagli autori che si sono occupati della materia (anche dopo le due grandi riforme del diritto dei mercati finanziari, d.lgs. n. 58/1998, e delle società di capitali, d.lgs. n. 6/2003) [2]. I fuggevoli cenni, talora impliciti, che si è avuto modo di rinvenire al riguardo si esprimono peraltro in senso costantemente negativo, nel senso cioè dell’inconfigurabilità di un diritto di recesso [3]. Del resto, sempre secondo una prima sensazione basata sulle evidenze empiriche, anche osservando i recenti casi di revoca dalla quotazione di grandi e grandissime società (disposta a causa dei dissesti che le hanno colpite e che poco dopo ne hanno determinato la sottoposizione a procedure di amministrazione straordinaria), non risulta che si sia data, ed anzi neppure prospettata, la possibilità per gli azionisti – per tutti gli azionisti – di recedere «in massa» dalla società. La sensazione, piuttosto netta (anche se certo tutta da verificare), è quindi che la revoca dalla quotazione non comporti l’insorgere di un diritto di recesso dalla società emittente in capo ai titolari delle azioni escluse dalla negoziazione.


3. Il dato normativo

Prendendo le mosse dal dato normativo, è innanzitutto da notarsi come la revoca dalla quotazione non venga mai menzionata dalla legge (oltre che, come detto, dalla stessa letteratura giuridica in materia) fra le ipotesi di recesso. Questo dato appare rilevante – ed anzi potrebbe già di per sé ritenersi risolutivo – ben al di là di quanto normalmente si ritenga esserlo la c.d. «lettera della legge» (il «criterio letterale» essendo normalmente ritenuto, nell’interpretazione della legge, un criterio non insuperabile e comunque da suffragarsi attraverso il ricorso ad altri criteri, innanzitutto quello «sistematico»). Gli è in effetti che, nella specifica materia del diritto di recesso, sembra valere tuttora – e cioè anche dopo la riforma organica del 2003 – un principio di tassatività delle ipotesi di recesso ex lege dalla società per azioni [4]. Vero è che l’elenco di tali ipotesi risulta, per effetto della riforma, notevolmente ampliato. E vero è anche che, all’interno della più vasta categoria delle società di capitali, l’elenco delle ipotesi di recesso espressamente nominate dalla legge risulta affiancato – in particolare per quanto riguarda le s.r.l. e le s.p.a. c.d. «chiuse» – da ampie «aperture» all’autonomia statutaria, cui si consente di aggiungere, alle ipotesi nominate, ulteriori cause di recesso (allora statutarie, in contrapposizione a quelle ex lege; cfr. artt. 2437, 4° comma, e 2473, 1° comma, c.c.). Tuttavia – a parte il fatto che in questa sede non si sta trattando né di una s.r.l., né di una s.p.a. «chiusa» – si è anche detto che qui interessano soltanto le cause di recesso ex lege, ed in particolare se fra esse possa ricomprendersi la revoca dalla quotazione; non interessando invece verificare se tale evenienza possa rientrare nell’àmbito delle eventuali cause di recesso statutarie. La mancata previsione della revoca dalla quotazione fra le ipotesi di recesso ex lege sembra quindi condurre alla conclusione (stante la perdurante vigenza, in materia, del ridetto criterio di tassatività, secondo cui deve ritenersi che il legislatore «ubi noluit non dixit») che una tale revoca non comporti [continua ..]


4. Il dato sistematico

Ciò detto, si può comunque – e sembra si debba – andare oltre. In particolare, appare opportuna una verifica sistematica della conclusione che, come visto, sembra già emergere, oltre che da alcune sommarie evidenze empiriche, dalla stessa lettera della legge. Occorre allora riscontrare la «tenuta» di una siffatta conclusione rispetto a quella che sistematicamente risulta essere la funzione del diritto di recesso: sia in generale, sia poi – più in particolare – rispetto a quelle specifiche ipotesi, previste dalla legge, che sembrano funzionalmente più vicine alla fattispecie che qui rileva. In generale, dunque, non par dubbio (e senza che occorra citare a conforto la pressoché sterminata letteratura in materia) che il diritto di recesso – tanto più secondo il disegno complessivo della Riforma del 2003 [6] – sia un istituto approntato eminentemente in funzione della tutela delle cd. minoranze (pur essendo ben noto che «maggioranza» e «minoranza» non sono tanto concetti riferiti alla quota di capitale complessivamente detenuta, bensì al concreto potere esercitabile in assemblea). Si tratta cioè di un istituto la cui utilità è stata essenzialmente concepita rispetto ad un contesto tutto interno alla naturale dialettica, e contrapposizione, fra minoranza (o «minoranze») e maggioranza [7]. La possibilità dell’«exit» (come si suol dire parlando del recesso) risulta infatti concessa a quei soci che in determinate circostanze si trovino a soggiacere al potere (e talvolta, come dice la Relazione alla legge, «all’oppressione») della maggioranza, e che pertanto non vogliano, o comunque non possano utilmente, contrastare quel potere con la loro «voice» (come si suol dire parlando, essenzialmente, dell’esercizio del voto). Tutto ciò può ben constatarsi già ad una prima lettura del dato positivo: quasi tutte le cause di recesso [8], in effetti, consistono dall’adozione di una deliberazione assembleare (per lo più, poi, modificativa dell’atto costitutivo) e riguardano i soli soci assenti o dissenzienti. D’altra parte, le uniche cause di recesso (tre) che non scaturiscono da una deliberazione assembleare si rivelano per la verità del [continua ..]


5. Gli artt. 2347-quinquies c.c. e 145, 2° comma, t.u.f.

Occorre inoltre, come si diceva, tentare una verifica della conclusione sin qui raggiunta (non si dà diritto di recesso per effetto della revoca dalla quotazione) raffrontando tale ipotesi con altre due previsioni legislative che si occupano dell’esclusione dalle negoziazioni. Fermo restando, comunque, che il summenzionato principio di tassatività in materia di recesso già a priori osterebbe al tentativo di estendere l’applicazione delle disposizioni in materia di recesso a fattispecie non espressamente nominate (come appunto la revoca dalla quotazione). Vengono dunque in questione due norme: l’art. 2347-quinquies c.c. e l’art. 145, 2° comma, t.u.f. Come noto, l’art. 2347-quinquies c.c. («assorbendo» la disciplina ed ampliando le fattispecie già previste dall’ormai abrogato art. 131 t.u.f., che contemplava le sole ipotesi di deliberazioni di fusione e scissione) prevede che, nei casi in cui si determini un’esclusione dalla quotazione per effetto di una deliberazione assembleare, avranno diritto di recedere i (soli) soci che non hanno concorso alla deliberazione. Non importa poi tanto indagare la questione – pur importante – se in tal caso l’esclusione dalle negoziazioni possa costituire il diretto oggetto di una deliberazione assembleare (c.d. “delisting puro”), ovvero soltanto l’effetto indiretto di una deliberazione avente diverso oggetto (come peraltro sembra preferibile ritenere [11]). Ciò che qui piuttosto conta – perché conferma quanto sinora detto – è che anche secondo l’art. 2347-quinquies c.c., che pur si occupa espressamente di un’ipotesi di dequotazione, il diritto di recesso in tanto viene accordato in quanto si tratti di tutelare una «minoranza» di soci che non acconsenta ad una scelta riconducibile alla maggioranza [12]. Scelta che poi – come accade solitamente, ed in questo caso necessariamente – deve assumere la forma di una delibera assembleare. Può quindi concludersi, con un apprezzato autore, che «la causa di recesso dell’art. 131 [ora 2437-quinquies c.c.] consiste nell’esclusione delle azioni dalle negoziazioni per volontà della stessa società e non per provvedimento del gestore del [continua ..]


6. La quotazione come trasformazione. Critica

V’è infine un’ultima questione – invero piuttosto accademica e forse ormai un po’ anacronistica – di cui per completezza occorre comunque farsi carico. Si tratta della prospettazione, tentata da alcuni autori [17], della «dequotazione» come «trasformazione» della società; sul presupposto – evidentemente – che la «s.p.a. quotata» sarebbe un tipo sociale diverso dalla «s.p.a. non quotata», e che pertanto la dequotazione comporterebbe un cambiamento del tipo (i.e.: trasformazione); come tale allora fonte di recesso ex art. 2437, 1° comma, lett. b, c.c. È una prospettazione, questa, che però deve respingersi per le seguenti ragioni. a) Non v’è dubbio, stando alla più accreditata letteratura in materia di tipi di società[18], che «tipo» stia a significare un «modello di fattispecie contrattuale» prefigurato dalla legge affinché si possano sussumere in quel tipo, applicandovi allora la relativa disciplina, tutti quei programmi negoziali (cioè i concreti «atti costitutivi») che vi si conformino. È evidente allora che «cambiamento del tipo» può significare soltanto la modifica di un certo programma negoziale (atto costitutivo) che, appuntoper effetto di tale modifica, non sia più sussumibile in un certo tipo e debba invece ricondursi ad altro tipo legale (ad esempio: da s.p.a. a s.r.l.). Quando però sopraggiunga un «cambiamento» – quale può essere appunto la revoca dalla quotazione – che non riguardi minimamente l’organizzazione statutaria, bensì soltanto una situazione esterna alla società (essere le sue azioni negoziate o meno in un mercato regolamentato) è evidente che, seppur tale cambiamento può incidere su parte della disciplina applicabile, il tipo (cioè la fattispecie negoziale cui può ricondursi l’atto costitutivo) resta del tutto inalterato, vale a dire quello unitario della s.p.a., e che quindi di recesso non si possa neppure parlare [19]. b) In effetti, chi ha prospettato la dequotazione come «trasformazione» della società, lo aveva fatto (non senza qualche imbarazzo) soltanto per ragioni che sembrano ormai del tutto superate dalla Riforma del diritto [continua ..]


7. Conclusione

In definitiva non constano elementi – né empirici, né testuali, né sistematici, né puramente «teorici» – per ritenere che, a seguito della revoca dalla quotazione delle azioni emesse da una società, possa sorgere in capo ai suoi azionisti un diritto di recesso.


NOTE
Fascicolo 3 - 2007