<p>Impresa Società Crisi di Palazzolo Andrea, Visentini Gustavo</p>
Rivista di Diritto SocietarioISSN 1972-9243 / EISSN 2421-7166
G. Giappichelli Editore

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La vigilanza sul rispetto dei codici di corporate governance (di Antonino Colombo)


SOMMARIO:

1. Introduzione. Le modifiche degli artt. 124-ter e 192-bis t.u.f. - 2. Il processo di adozione del Codice di autodisciplina di Borsa italiana S.p.A. Brevi raffronti con altri ordinamenti - 3. Gli orientamenti dello European Corporate Governance Forum e della dottrina - 4. Codici di autodisciplina e poteri-doveri di controllo della Consob. Potenziali effetti distorsivi degli abrogati artt. 124-ter e 192-bis t.u.f. - 5. (Segue). Due esempi emblematici: gli amministratori non esecutivi (ed indipendenti) e le operazioni con parti correlate - 6. Considerazioni conclusive - NOTE


1. Introduzione. Le modifiche degli artt. 124-ter e 192-bis t.u.f.

L’OCSE, nel primo dei suoi Principi di governo societario (2004) [1], identifica le «basi per un efficace governo societario», ponendo l’accento sui compiti istituzionali delle «diverse autorità preposte alla supervisione, alla regolamentazione e alla garanzia dell’applicazione delle norme». Il Principio OCSE rafforza, così, la consapevolezza che il buon governo delle imprese (specie, di quelle che raccolgono capitali sui mercati) dipende tanto dalla legge quanto dall’autodisciplina, tanto dalle reazioni del mercato ai fatti di mala gestio, quanto dagli interventi sanzionatori delle Autorità di vigilanza. Trascurare l’uno o l’altro elemento porta, quindi, ad avere una visione parziale delle «fonti» della corporate governance, che invece debbono coesistere, secondo un dosaggio che varia in funzione dei mercati, del sistema istituzionale, dell’ordinamento giuridico, della cultura «etica», propri di ciascun Paese. Se guardiamo alle fonti della governance delle imprese italiane, possiamo constatare che, in effetti, tra esse vanno, a pieno titolo, annoverati gli atti delle nostre autorità amministrative indipendenti con funzione di supervisione dei mercati finanziari e, quindi, in primis della Consob [2]. Alla Commissione si deve, infatti, l’elaborazione di un significativo numero di norme e raccomandazioni, che toccano i punti nevralgici della nostra materia. Si pensi, per citare solo la raccomandazione che ha avuto più ampia eco, alla comunicazione n. 97001574 del 20 febbraio 1997 sui controlli societari [3]. La legge per la tutela del risparmio (legge n. 262/2005) ha sensibilmente ampliato i compiti della Consob in materia, assegnandole un ruolo guida sia nella fase di fissazione ex ante di regole generali ed astratte [4], sia in quella dei controlli ex post. Quanto al secondo profilo, una norma cruciale è quella dell’art. 14 della legge n. 262, che ha inserito nel Testo Unico della Finanza (d.lgs. n. 58/1998, t.u.f.) una nuova sezione, dedicata alle «Informazioni sull’adesione a codici di comportamento» [5]. La sezione comprende due soli articoli: il 124-bis e il 124-ter. Mentre il primo traduce in norma di legge il principio comply or explain, il secondo prevedeva, inter [continua ..]


2. Il processo di adozione del Codice di autodisciplina di Borsa italiana S.p.A. Brevi raffronti con altri ordinamenti

Ripercorriamo, anzitutto, il processo che ha portato all’emanazione del codice di comportamento per eccellenza: il Codice di Autodisciplina redatto dal Comitato per la Corporate Governance, nominato da Borsa Italiana S.p.A. Esso ha una storia che risale al 1999 [7], anno di pubblicazione della sua prima edizione, oggetto di un’opera di riammodernamento compiuta nel 2002 [8]. L’attuale Codice, erede della precedente edizione rielaborata, è stato dato alle stampe nel marzo del 2006 [9]. Il Codice, dunque, è sempre stato espressione dell’iniziativa autoregolamentare di un soggetto privato: la società di gestione dei mercati regolamentati. Diversamente, in altri Paesi dell’Europa continentale, il processo di elaborazione dei codici di comportamento non si è sviluppato in un alveo strettamente «privato», ma ha visto il coinvolgimento di autorità pubbliche. Il primo esempio è quello della Germania. Il Codice tedesco di corporate governance (c.d. codice Cromme [10]), infatti, è stato adottato da una commissione, composta da membri designati dal Ministro della Giustizia. Esso, inoltre, è stato pubblicato sulla Gazzetta ufficiale federale, al pari degli atti normativi di fonte statuale. Il secondo esempio proviene dalla Spagna. Nel 2003 (Orden ECO/3722/2003, del 26 dicembre), il Consiglio dei Ministri ha affidato alla Comisión Nacional del Mercado de Valores (CNMV) il compito di guidare i lavori di consolidazione in unico testo delle raccomandazioni contenute nei cc.dd. codici Olivencia e Aldama. Sulla base della citata Orden, il Governo ha poi nominato un Gruppo di lavoro, composto in maggioranza da rappresentanti della pubblica amministrazione e presieduto da un esponente della CNMV. Il nuovo Codice spagnolo (Informe del Grupo Especial de Trabajo sobre Buen Gobierno de las Sociedades Cotizadas) ha visto, quindi, la luce nel maggio 2006, previa formale approvazione da parte della CNMV (con Acuerdo del Consejo) del testo elaborato dal Gruppo di lavoro [11]. Data la genesi dei due Codici appena menzionati [12], il lettore italiano, che avesse avuto il tempo di abituarsi al concetto alla base dell’art. 124-ter t.u.f. (la vigilanza sulla veridicità spetta all’autorità pubblica), potrebbe [continua ..]


3. Gli orientamenti dello European Corporate Governance Forum e della dottrina

Vediamo, adesso, la posizione assunta da un organo consultivo della Commissione europea (in quanto tale dotato di una specifica autorevolezza): lo European Corporate Governance Forum. Esso nello «Statement on the comply-or-explain principle» del febbraio 2006 ha espresso il seguente orientamento: «regulatory authorities should limit their role to checking the existence of the statement, and to reacting to blatant misrepresentation of fact They should not try and second-guess the judgement of the board(s) or the value of its/their explanation. This is a matter for the company’s shareholders» [19]. Da una parte, sembra di rileggere le parole dell’Informe spagnolo sopra riportate, a dimostrazione dell’impegno della CNMV nel tenere conto degli orientamenti delle istituzioni comunitarie e dei relativi fora con ruolo consultivo. Dall’altra, abbiamo una chiara smentita della regola voluta dalla legge italiana sul risparmio e qui criticata. Un ultimo punto di riferimento per valutare l’art. 124-ter t.u.f. è la dottrina giuridica. Secondo un autorevole Autore: «Administrative supervision can only relate to whether a code has been identified and explanation given in case a provision is not followed but without entering into the substance of that explanation. In many instances the administrative supervisor would not be able to determine whether the answer was satisfactory or even true». Il Nostro soggiunge poi: «A substantive review, this is whether the provisions have in fact been followed and whether the explanation for not complying is a credible one, is generally considered impossible, and creates unjustified expectations, while leading to a formalistic attitude» [20]. Anche la migliore dottrina, dunque, propugna una tesi inconciliabile con la ratio di norme, come quelle introdotte dalla nostra legge sul risparmio.


4. Codici di autodisciplina e poteri-doveri di controllo della Consob. Potenziali effetti distorsivi degli abrogati artt. 124-ter e 192-bis t.u.f.

Tenendo in mente quanto esposto nei paragrafi che precedono, proviamo ora a sviluppare qualche ulteriore riflessione sulle norme in esame. Esse presentavano la Consob come «garante» diretto della veridicità delle informazioni sulla governance. La Commissione non avrebbe potuto più limitarsi a fare ragionevole affidamento sulle relazioni e segnalazioni del collegio sindacale. Se così fosse stato, nel t.u.f. non avremmo dovuto leggere altro che la disposizione di cui all’art. 149, 3° comma. Volendo, invece, dare un senso proprio alle disposizioni di cui agli artt. 124-ter e 192-bis, si dove­va ammettere che il testo unico esigeva un controllo, espressamente qualificato di veridicità, da esercitarsi direttamente dalla Consob, anche a prescindere dalla mediazione dell’organo di controllo interno delle imprese. Trattandosi di un potere-dovere, ne sarebbe disceso che la Consob avrebbe potuto essere chiamata a rispondere dei danni causati dalle défaillances del sistema dei controlli delle società vigilate, anche in assenza di reports allarmanti dei sindaci e dei revisori. Un probabile effetto collaterale delle norme criticate avrebbe potuto essere, pertanto, un «eccesso di colpevolizzazione» della Commissione. Percorrendo la via tracciata dagli artt. citt., si sarebbe giunti, cioè, al risultato di fare della Consob la titolare di una «posizione di garanzia» generalissima, correlata ad ogni genere di affare delle società quotate e a farne quindi una sorta di deep pocket, a disposizione di tutti coloro che, affidando, in una forma o nell’altra, i propri risparmi a tali società, avessero riportato una qualche lesione all’inte­grità del loro patrimonio. E, per di più, una deep pocket solvibile, consapevolezza questa che può agire da potente incentivo a citare in giudizio, in ogni caso, (anche) la Consob [21]. Per chiarire il punto, è utile osservare che il termine «veridicità» evoca immediatamente la dibattuta questione dell’ampiezza e profondità dei compiti di controllo sui prospetti. Come noto, fondamentale, sul punto è la sentenza della Cassazione n. 3132/2001 [22], preceduta da un vivace dibattito dottrinale [23] e resa possibile dalla [continua ..]


5. (Segue). Due esempi emblematici: gli amministratori non esecutivi (ed indipendenti) e le operazioni con parti correlate

Chiediamoci, ora, con riferimento a due ipotesi emblematiche, se le norme degli artt. 124-ter e 192-bis potessero avere effetti positivi tangibili, sotto il profilo della tutela dei risparmiatori, fine ultimo dichiarato della legge n. 262. Nonostante l’ottimistico giudizio prognostico di parte della dottrina [41], se ne può dubitare poiché le relazioni sulla governance si appuntano su elementi, che non sempre si prestano ad un’agevole verifica in termini di veridicità/falsità. Si pensi al caso degli amministratori non esecutivi «Il [cui] numero, … competenza, … autorevolezza e … disponibilità di tempo … [devono essere] tali da garantire che il loro giudizio possa avere un peso significativo nell’assunzione delle decisioni consiliari» (Princ. 2.P.3 Cod. di Autod.). Di fronte a regole di questo tenore, avrebbe la Consob potuto e dovuto giudicare l’adeguatezza del numero dei non esecutivi e l’effettivo possesso dei requisiti prima ricordati? Analoghi interrogativi sarebbero sorti, ovviamente, anche per gli amministratori indipendenti, che devono essere in numero adeguato (Princ. 3.P.1) [42]. La verifica della Consob sarebbe necessariamente culminata in un provvedimento con effetti molto incisivi sull’operatività dell’organo gestorio e sulla reputazione dell’amministratore giudicato non indipendente. Oltre al diritto di impugnare i provvedimenti che comminano le sanzioni irrogate dalla Consob ex art. 192-bis, si sarebbe potuto negare all’interessato il diritto di agire in giudizio a difesa della propria reputazione e prestigio professionale? Se fossero state dalla Commissione condivise le conclusioni di un’indagine [43], che accredita come effettivamente indipendenti solo 4 o 5 dei 284 amministratori presentati come tali dalle quotate italiane, quali sarebbero state le conseguenze sul piano del contenzioso e, quindi, del funzionamento degli organi amministrativi di queste ultime? Inoltre, una vigilanza di veridicità, intesa in modo stringente, avrebbe potuto comportare una certa tendenza a scivolare verso forme di ingerenza, da parte del supervisore, nel vivo dell’attività di progettazione e realizzazione del sistema di governance delle imprese vigilate [44]. Stabilire se sia vero o meno che un certo amministratore possa [continua ..]


6. Considerazioni conclusive

La legge n. 262, nel momento in cui inseriva nel t.u.f. norme come quelle degli artt. 124-ter e 192-bis, mostrava, in definitiva, un’ispirazione paternalistica, a cui non era certo che potesse corrispondere un reale miglioramento del livello di affidabilità del sistema di governance dei nostri emittenti quotati [49]. È utopistico pensare che l’attendibilità delle informazioni societarie possa essere garantita, per tutti e in tutti i casi, da un organo pubblico. L’Autorità di vigilanza ha precise responsabilità istituzionali, dovendo essa «vigila[re] sui mercati regolamentati al fine di assicurare la trasparenza, l’ordinato svolgimento delle negoziazioni e la tutela degli investitori» (art. 74 t.u.f.), ma ciò non può condurre alla deresponsabilizzazione degli attori del mercato. È invece necessario che enforcement pubblico e privato si integrino e si rafforzino reciprocamente e, a tal fine, sembra opportuno il «ponte» tra i due livelli di controllo instaurato dall’art. 149 t.u.f. [50]. Esso, da una parte, pone a carico del collegio sindacale il potere-dovere di vigilare sulle modalità di concreta attuazione delle regole di governo societario previste da codici di comportamento (1° comma, lett. c-bis) e, dall’altra, gli impone di comunicare senza indugio alla Consob le irregolarità riscontrate (3° comma). Sono queste norme equilibrate, che non confondono il piano del controllo privato (interno) e quello del controllo pubblico (esterno), ma che allo stesso tempo consentono loro di comunicare [51]. Il d.lgs. n. 303/2006 ha avuto il merito di cancellare le disposizioni che avrebbero potuto oscurare queste norme.


NOTE
Fascicolo 3 - 2007