Rivista di Diritto SocietarioISSN 1972-9243 / EISSN 2421-7166
G. Giappichelli Editore

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Diritto di disinvestimento: un'analisi comparatistica tra diritto di recesso e appraisal right statunitense (di Paolo Guaragnella)


SOMMARIO:

1. Introduzione. - 2. La problematica del disinvestimento. - 3. Cenni circa il diritto di recesso disciplinato nell’ordinamento italiano. - 4. L’appraisal right: elementi caratteristici dell’istituto. - 5. Profili di confronto tra le diverse esperienze. - 5.1. - 5.2. - 5.3. - 5.4. - 5.5. - NOTE


1. Introduzione.

Il diritto al disinvestimento è una tematica che ha assunto particolare rilievo nelle decadi più recenti, allorché cioè la partecipazione in forme societarie ha sempre più assunto il carattere di investimento quale categoria essenziale per la ricostruzione del fenomeno societario [1]. In questo lavoro, tale tematica verrà sviluppata sotto il profilo della tutela delle minoranze che, di contro, è uno dei temi classicamente più dibattuti del diritto commerciale ed ha rappresentato un caposaldo della politica legislativa comunitaria, come testimoniato dalle previsioni del Trattato costitutivo delle Comunità Europee (“TCE”) che attribuiscono espressamente al Consiglio e alla Commissione la possibilità di adottare direttive per coordinare, “nella necessaria misura e al fine di renderle equivalenti”, le legislazioni statali sulle società in ordine ala protezione degli “interessi tanto dei soci come dei terzi” [2]. In tal senso si pensi alla direttiva 77/91/CEE intesa a coordinare le garanzie che sono richieste, negli Stati membri, alle società di cui all’art. 58, 2° comma, TCE [3], per tutelare gli interessi dei soci e dei terzi con riferimento alla costituzione della società per azioni, nonché alla salvaguardia e alle modificazioni del capitale sociale della stessa [4]; o alla direttiva 2007/36/CE, relativa all’esercizio di alcuni diritti degli azionisti di società quotate [5], in particolare diritti di informativa e di voto su base transfrontaliera. L’indagine sarà orientata avendo a riferimento, in particolare, le società azionarie, le quali costituiscono il tipo societario che, nelle intenzioni dei legislatori, dovrebbe essere maggiormente utilizzato per la conduzione di attività di impresa di una certa dimensione e complessità [6] e in cui la multiforme tematica delle minoranze si presenta in maniera più evidente. Il presente studio si pone l’obiettivo di sviluppare, in un’ottica comparatistica, il tema del disinvestimento con riferimento ai soci che non siano autonomamente in grado di incidere sulle decisioni societarie. Il secondo paragrafo mira a ricostruire in termini generali la fattispecie del disinvestimento, in particolare quale strumento di reazione a disposizione degli azionisti di minoranza. Nei [continua ..]


2. La problematica del disinvestimento.

La problematica del disinvestimento può essere considerata quasi il necessario risvolto dell’investimento stesso in partecipazioni societarie, ma si è posta in maniera ancor più evidente in tempi recenti in ragione della sempre maggiore velocità degli scambi azionari. Sebbene l’esigenza sottesa alla dismissione fosse avvertita sin dal XVII secolo con la raccolta di capitali anonimi per le spedizioni coloniali [7], è evidente che questa abbia assunto rilevanza di ben diverso momento con lo sviluppo dei mercati dei capitali in cui gli scambi azionari (realizzati mediante investimenti e disinvestimenti) avvengono ad intervalli anche di pochi secondi [8]. Da un’analisi cronologica emerge che il diritto al disinvestimento ha vissuto un’inversione prospettica della politica legislativa che, partendo dalla tutela del diritto degli azionisti a mantenere il proprio status socii contro le decisioni della maggioranza, è giunta sino a porre al centro dell’attenzione della propria azione il “diritto al disinvestimento” da parte del socio [9]. Tale cambio di prospettiva è da ricondurre all’evoluzione dei mercati dei capitali e all’affer­marsi di teorie economiche secondo le quali ad una maggiore liquidità di un mercato, ovvero di uno strumento finanziario, corrisponde un minore costo del capitale e quindi anche una maggiore predisposizione ad attirare capitali di rischio [10], come dimostrato anche dall’evidenza empirica in base alla quale gli investitori sono disposti a corrispondere elevati premi in cambio della liquidità dello strumento in cui investono [11]. Il diritto al disinvestimento (indicato anche con il termine “exit” nel linguaggio degli operatori giuridico-finanziari), può realizzarsi attraverso una serie di operazioni anche molto diverse tra loro che hanno come elemento comune lo scioglimento del vincolo societario. Tali operazioni possono avere natura fisiologica sotto il profilo dell’investimento e tale è il caso della cessione della partecipazione a terzi. Per i fondi di private equity, ad esempio, si tratta di un passaggio naturale del processo di investimento, una volta esaurita la durata prefissata del fondo stesso [12]. Ciò tipicamente può avvenire sia attraverso un trade sale, ossia mediante la vendita della propria [continua ..]


3. Cenni circa il diritto di recesso disciplinato nell’ordinamento italiano.

Tenuto conto dei numerosi contributi sul tema [28], cui si rinvia per un’analisi più approfondita, in questa sede preme descrivere le principali caratteristiche del diritto di recesso, soprattutto ai fini della comparazione con l’omologo strumento nord americano. Il diritto di recesso nel diritto italiano ha acquistato nuova linfa a seguito della riforma delle società di capitali del 2003 [29]: la disciplina anteriforma prevedeva solo tre casi al verificarsi dei quali il socio – di una società non quotata – aveva il diritto di ottenere il rimborso delle proprie azioni: cambiamento dell’oggetto sociale, trasformazione del tipo di società e trasferimento della sede all’estero [30]. L’istituto non aveva avuto diffuso rilievo pratico per due ragioni: il ristretto numero di ipotesi in cui era possibile attivarlo e soprattutto per i criteri di liquidazione della partecipazione che generalmente pregiudicavano le ragioni del recedente [31]. Da questi elementi era possibile evidenziare un sostanziale disfavore del legislatore nei confronti di tale diritto, che rivestiva appunto carattere del tutto eccezionale [32]. Inoltre, la giurisprudenza riteneva che il diritto di recesso non fosse statutariamente suscettibile di estensione ad ipotesi diverse rispetto a quelle espressamente contemplate [33]. La riforma ha significativamente ampliato le ipotesi di recesso [34], prevedendo inoltre dei criteri di valorizzazione della partecipazione volti a meglio contemperare gli interessi dell’azio­nista recedente, rispetto a quelli della società, dei soci rimanenti e dei terzi [35]. Inoltre, un’ulte­riore novità è rappresentata da una definizione analitica delle varie fasi del processo (in ultima istanza, di liquidazione) volta a ridurre, per quanto possibile, gli ambiti di incertezza. Non è semplice individuare una definizione unitaria del diritto di recesso, anche in ragione della varietà delle fattispecie che danno luogo al diritto degli azionisti di liquidare la propria partecipazione [36]. Tuttavia la riforma del diritto societario sembra aver superato la concezione del recesso come forma di opposizione unilaterale del socio volta allo scioglimento del vincolo sociale, bensì sembra considerarlo quale strumento per “riconsiderare l’investimento” in presenza di mutamenti [continua ..]


4. L’appraisal right: elementi caratteristici dell’istituto.

L’appraisal right è un rimedio, previsto negli Stati Uniti da varie Statute Law, che attribuisce agli azionisti che dis­sentano da una delibera che approvi operazioni specificamente previste (quali ad es. fusioni o scorpori societari) il potere di richiedere alla Court of Chancery di determinare il “valore equo” di liquidazione della propria partecipazione [47]. Si è volutamente adottata una definizione ampia del­l’istituto in quanto ciascuno Stato adotta una peculiare versione dello stesso, al punto da poter affermare che esistano tante versioni di appraisal right quante giurisdizioni [48]. Per l’economia di questo lavoro e per la rilevanza pratica del fenomeno, la ricerca sarà focalizzata principalmente sulla legislazione e la giurisprudenza dello Stato del Delaware, nonché sul Revised Model Business Corporation Act, che rappresenta il riferimento per gli Statute di diversi Stati federali [49]. Con alcune differenze sostanziali rispetto al diritto di recesso, il diritto di appraisal nasce originariamente dall’esigenza di bilanciare il potere della maggioranza di adottare unilateralmente decisioni necessarie all’adattamento della società – per facilitarne la crescita – alle nuove esigenze di mercato [50]. Sino a quasi gli inizi del 1900, vigeva la regola dell’unanimità per le modifiche sostanziali della struttura sociale (o anche la semplice proroga della durata della società) [51], pertanto alle minoranze veniva riconosciuto un vero e proprio potere di veto sulle scelte strategiche dell’impresa. Successivamente, però, le corti prima e i legislatori statali poi si resero conto che questa struttura decisionale provocava inefficienze [52] – che sfociavano in veri e propri atti di tirannia da parte delle minoranze [53] – non più in linea con le esigenze di un’eco­nomia moderna che avesse come obiettivo il bene comune [54]. Progressivamente quindi i legislatori statali, compreso quello del Delaware [55], autorizza­rono l’adozione a maggioranza di modifiche strutturali dell’apparato societario quali fusioni, vendita di asset e liquidazione volontaria [56]. In tale contesto, nel 1899, fu introdotto il Delaware appraisal Statute che preve­deva un [continua ..]


5. Profili di confronto tra le diverse esperienze.

5.1.

Per operare un parallelo tra il diritto di appraisal e il diritto di recesso esistente in alcuni ordinamenti europei, non si può prescindere dal tenere in considerazione le differenze che caratterizzano i sistemi europei (continentali) rispetto a quello statunitense/anglosassone [74]. In primis si deve prendere atto che il diritto di recesso rappresenta per l’azionista ancora un mezzo per liquidare il proprio investimento in caso di decisioni che comportino un mutamento significativo dell’assetto organizzativo [75]. Pertanto si può ravvisare una contiguità funzionale dei due strumenti soprattutto avendo a riferimento le società c.d. chiuse. Per le società quotate, le cui azioni possono essere agevol­mente scambiate sul mercato, invece, esiste una continuità tra la norma di cui all’art. 2437-quinquies c.c. e la su descritta “eccezione dell’eccezione” [Section 262(b)(2)]: entrambe prevedono la possibilità di exit per i soci che ricevano in cambio di azioni quotate altri stru­menti (anche diversi da azioni, nel caso americano) non quotati. Nel caso delle società quotate, il recesso potrebbe svolgere – anche se è difficile immaginarlo – la funzione di “assegno” (per la determinazione di un prezzo equo della partecipazione), propria del­l’ap­praisal (come si analizzerà più approfonditamente nel prosieguo), nel caso in cui il valore di mercato delle azioni sia calato sensibilmente a seguito dell’annuncio dell’operazione (ad es. per il rico­noscimento di un premio eccessivo o nel caso di valutazione inferiore rispetto al valore effettivo) [76]; in tal caso il recesso tutelerebbe il diritto al disinvestimento dell’azionista il quale, qualora decidesse di liquidare la propria partecipazione sul mercato, otterrebbe un contro­valore proporzionalmente inferiore rispetto al valore “fair” della azioni. Il diritto di recesso permette invece di liberarsi delle azioni ad un valore che faccia esclusivo riferimento alla media semestrale dei prezzi, mitigando così gli effetti, potenzialmente distorsivi, del­l’an­nuncio dell’operazione sul corso del titolo e quindi sul valore di exit [77]. Si tenga comunque presente che per le società quotate, le discipline [continua ..]


5.2.

I rimedi di exit sono probabilmente i più efficaci, rispetto ai rimedi reali o obbligatori, sotto il profilo della tutela degli azionisti [99], al contempo però è importante che questi non si traducano in un freno all’adozione di decisioni da parte della società o addirittura in una diminuzione del patrimonio sociale tale da minacciarne l’integrità stessa [100]. Il diritto di appraisal, assimilabile sotto alcuni aspetti ad un’opzione put con la quale il socio può ottenere l’acquisto delle proprie azioni da parte della società [101], è strutturato in modo che il relativo costo sia sopportato per intero necessariamente dalla società. È quindi da apprezzare, alla luce dei rischi evidenziati, la possibilità di modulare il processo di liquidazione delle azioni in modo tale da far ricadere l’esborso solo eventualmente sulla società; la procedura prevista dall’ordinamento italiano all’art. 2437-quater c.c. mira infatti a mantenere integro il patrimonio sociale senza alterare il peso proporzionale dei soci [102]. In base a tale norma, le azioni oggetto di recesso saranno prima offerte in opzione, in proporzione alle azioni possedute, ai soci (comma 1), i quali potranno dichiarare di voler esercitare la prelazione sulle azioni rimaste inoptate (comma 3). Successivamente le azioni restanti saranno offerte dagli amministratori direttamente a terzi o sul mercato (comma 4). Solo alla fine di questo iter le azioni residue dovranno essere acquistate dalla società (comma 5). Questa procedura permetterà agli amministratori maggiore libertà nell’adottare scelte strategiche necessarie per adeguare la società alle nuove esigenze che il mercato abbia sollevato, senza rischiare che esse provochino un depauperamento eccessivo del patrimonio dell’im­presa. Se infatti gli azionisti di maggioranza condividono il progetto, è plausibile che essi decidano di continuare ad investire nel progetto; in tal caso il costo del recesso sarà sopportato dai soci che abbiano scelto di rimanere nella società. Sarà quindi compito degli amministratori della società offrire un’informativa adeguata alla compagine azionaria che illustri i vantaggi dell’operazione al fine di convincere i soci a non esercitare il diritto di [continua ..]


5.3.

Ulteriore elemento di incertezza generato dall’appraisal è rappresentato dalla valutazione delle partecipazioni effettuata dalla Corte incaricata. Ciò è dovuto al fatto che lo Statute del Delaware fa esclusivamente riferimento ad un valore “fair” che debba essere riconosciuto ai soci che esercitino l’appraisal, senza però offrire alcuna specificazione del concetto, che risulterebbe quanto mai opportuna tenuto conto della variegata prassi aziendalistica sul tema [111]. Dalla lettera della norma si ricava esclusivamente che, nella determinazione del fair value, la Corte dovrà tenere in considerazione tutti gli elementi rilevanti ad esclusione degli elementi derivanti dall’operazione [112]. La prima definizione giurisprudenziale (largamente accolta) del suddetto concetto risale al 1950 e richiamava il criterio della società intesa come going concern (complesso azien­dale) [113]. In altre parole, il socio dissenziente avrebbe diritto a rice­vere a titolo di liquidazione il valore attualizzato dei benefici che egli avrebbe presumi­bilmente ricevuto in un arco tem­porale qualora avesse continuato a detenere le azioni [114]. L’appraisal è strutturato in modo da soddi­sfare il test di efficienza paretiana, il quale postula che l’azionista non riceva un contro-valore inferiore rispetto a quanto detenuto in precedenza rispetto all’operazione [115]. Questa definizione non offre però indicazioni circa il metodo finanziario per determinare il fair value. Per anni, sino al 1983, le corti hanno calcolato il valore delle azioni utilizzando il “Delaware Block Method” [116], in virtù del quale esse prendevano in consi­de­razione il valore degli asset della società, il prezzo di mercato delle azioni, i guadagni, nonché altri fattori secondo il giudizio delle corti stesse. A ciascuno di questi fattori veniva assegnato un valore che teneva conto anche delle circostanze specifiche del caso [117] (in particolare, le Corti avevano a riferimento operazioni comparabili e il costo storico dei beni a bilancio). La somma dei singoli valori componeva il fair value delle azioni. Tale metodo aveva però il limite di non consi­derare le altre tecniche comunemente accettate dalla comunità [continua ..]


5.4.

 I suddetti rimedi di exit, tanto il diritto di recesso di matrice europea, quanto l’ap­praisal right statunitense, condividono originariamente la funzione per la quale sono stati introdotti: la c.d. liquidity, ossia la possibilità per i soci dissenzienti di monetizzare la propria partecipazione (di regola non liquida). Ciò era tendenzialmente impostato come potere di reazione a modifiche sostanziali della società in cui gli stessi avevano investito, in contrapposizione al potere della maggioranza di adottare tali decisioni autonomamente (una volta venuto meno il principio dell’unanimità nei vari sistemi di diritto societario [145]. Pur riconoscendo il rimedio di exit, i diversi ordinamenti [146] hanno inizialmente guardato con sfavore allo stesso in quanto astrattamente in grado di depauperare il patrimonio della società, pregiudicando indi­rettamente i creditori sociali [147]. Ne è scaturita, come descritto in precedenza, una disciplina estremamente gravosa per l’esercizio di tale strumento, sotto il profilo dei termini decadenziali e della procedura in generale, dei costi, dell’ambito di applicazione limitato e della valutazione della partecipazione. Se ne può dedurre che la funzione per la quale i rimedi di exit erano stati introdotti negli ordinamenti, era al contempo – indirettamente – la causa del loro scarso utilizzo. Successivamente, la maggior parte degli ordinamenti ha cercato di dare nuovo slancio all’istituto, in concomitanza con la progressiva affermazione del ruolo dei soci di minoranza quali meri investitori, indifferenti alla natura della società target, ma attenti invece a conseguire il miglior bilanciamento tra prospettive di guadagno e rischi che gli stessi sono disposti ad assumere, secondo le esigenze del proprio portfolio. In Italia, ad esempio, questo aspetto è particolarmente evidente dalla lettura dell’art. 2497-quater, 1° comma, c.c. (introdotto con la riforma del 2003 in tema di società soggette ad attività di direzione e coordinamento), che individua quale causa di recesso: l’alterazione sensibile e diretta delle condizioni economiche e patri­moniali della società (lett. a)), nonché l’alterazione delle condizioni di rischio dell’investi­mento, in assenza di un’exitalternativa assicurata [continua ..]


5.5.

In conclusione, adottando gli strumenti della Law & Economics, si può evidenziare come gli ordinamenti abbiano interesse ad offrire una protezione degli azionisti quanto più efficiente in quanto l’incremento della protezione garantita agli azionisti dall’ordinamento della società targetsembrerebbe essere fonte di maggiori ritorni economici [159], anche nell’ambito dell’attività di cross-border merger [160]. A tal riguardo, alcuni studi hanno infatti dimostrato che gli effetti dell’annuncio di una fusione transfrontaliera sono maggiormente positivi per una società target(incorporata) allorché lo stato di incorporazione offra una protezione migliore rispetto al Paese di origine [161]. Inoltre, la scelta di potenziare il livello di protezione degli azionisti da parte di uno Stato membro potrebbe avere delle ricadute positive anche a livello complessivo, spingendo gli altri Stati a seguirne la strada secondo quello che sembra ormai un trend di spontaneo ravvicinamento delle legislazioni statali [162]. In sintesi, i rimedi di exit meriterebbero di ricoprire un ruolo significativo nel contesto del sistema di protezione delle minoranze societarie, pur riconoscendo alcuni limiti che ne caratterizzano l’attuale operatività [163]. A tal fine, un confronto costruttivo tra le diverse esperienze potrebbe permettere di cogliere gli elementi di positività propri delle diverse fattispecie nazionali, secondo un approccio tipico del metodo comparatistico.


NOTE
Fascicolo 4 - 2013