Rivista di Diritto SocietarioISSN 1972-9243 / EISSN 2421-7166
G. Giappichelli Editore

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Appunti in tema di divieto di azioni a voto plurimo: evoluzione storica e prospettive applicative (di Bernardo Massella Ducci Teri)


SOMMARIO:

1. Premessa. - 2. Origine ed evoluzione del divieto: dal codice di commercio del 1882 alla riforma del 2003. - 3. Ratio e ambito di applicazione del divieto. - 4. Alcune fattispecie escluse dal divieto. - NOTE


1. Premessa.

Uno dei principi che ha dichiaratamente ispirato la riforma delle società di capitali è stato l’ampliamento dell’autonomia statutaria e delle scelte rimesse ai soci [1]: la finalità perseguita è stata consentire a questi ultimi di regolare autonomamente, nella misura più ampia possibile, i rapporti reciproci e la propria partecipazione alla società, permettendo così alla stessa di reperire più facilmente risorse finanziarie [2]. In materia di società per azioni, il perseguimento di tali finalità ha portato, tra l’altro, alla codificazione, all’art. 2348 c.c., del principio di atipicità delle categorie azionarie [3] e, per quanto riguarda in particolare il diritto di voto, alla nuova disciplina di cui all’art. 2351 c.c. [4]. La riforma, quindi, sembra aver concepito la determinazione del contenuto delle partecipazioni azionarie come “un affare privato dei soci”, privilegiando un’ottica di free bargaining [5] in virtù della quale l’autonomia statutaria può liberamente modulare il contenuto delle azioni, essendo in ultima istanza rimessa al mercato la valutazione finale circa l’appetibilità delle stesse [6]. Tuttavia, è noto come, nonostante detto ampliamento, l’autonomia statutaria e la conseguente maggiore libertà riconosciuta ai soci nel determinare le rispettive partecipazioni incontrino alcuni limiti inderogabili [7]. Per quanto riguarda i diritti amministrativi e, nello specifico, il diritto di voto, detti limiti sono costituiti, da un lato, dall’art. 2351, 2° comma, c.c. (il quale stabilisce che le limitazioni del diritto di voto non possono riguardare azioni che rappresentino più della metà del capitale sociale), dall’altro, dall’art. 2351, 4° comma, c.c. (che mantiene fermo il divieto di emettere azioni a voto plurimo, introdotto dal legislatore del 1942) [8]. Queste disposizioni – e, in particolare, il divieto di azioni a voto plurimo – sarebbero per alcuni espressione della permanenza, a livello normativo, del principio generale di c.d. proporzionalità tra potere e rischio, altresì noto come “un’azione-un voto”, che riassume un modello legale essenzialmente incentrato su tre regole: (i) solo le azioni attribuiscono il diritto di voto [continua ..]


2. Origine ed evoluzione del divieto: dal codice di commercio del 1882 alla riforma del 2003.

Il dibattito relativo alle azioni a voto plurimo e alla necessità o meno di proibirne l’e­mis­sione ha un’origine risalente nel tempo [14]. La questione fu, infatti, affrontata già in seno alla sottocommissione nominata nel 1924 per predisporre un nuovo codice di commercio, presieduta da D’Amelio [15]. Sotto il vigore del codice di commercio del 1882, infatti, non vi era alcuna disposizione che vietasse espressamente l’emissione di azioni a voto plurimo. Invero, il codice prevedeva, da un lato, come regola generale (seppure derogabile – e, nei fatti, derogata – dallo statuto [16] il voto scalare [17] e, dall’altro, stabiliva che a ciascun azionista, in quanto tale, dovesse essere riconosciuto il diritto di voto [18]. Fermo, dunque, l’obbligo di riconoscere il voto a tutti i soci [19], il codice del 1882 concedeva la più ampia libertà a questi ultimi di regolare i propri diritti di voto [20]. Nel primo dopoguerra si assistette così alla rapida diffusione anche in Italia (sebbene in misura minore rispetto ai principali Paesi europei) delle azioni a voto plurimo [21]. Tale diffusione fu legata alla contingente situazione economica del momento e, in particolare, alla svalutazione monetaria postbellica [22]: nell’emissione di azioni a voto plurimo si vide, infatti, una possibile soluzione contro il rischio che investitori provenienti da Paesi con valuta forte potessero ottenere il controllo delle società nazionali (in un’ottica, quindi, fortemente protezionistica [23]. Ne derivò, dunque, un vivace dibattito in dottrina e in giurisprudenza sulla validità delle azioni a voto multiplo [24], i cui termini essenziali possono brevemente riassumersi come segue [25]: (i) era difficile trovare nella lettera della legge un argomento contro le azioni a voto plurimo [26]; (ii) il codice di commercio del 1882 non aveva recepito il principio di propor­zionalità tra potere e rischio, avendo anzi seguito l’opposto principio, prevedendo il voto scalare come regola (derogabile) di computo dei voti [27]; ma, in ogni caso (iii) l’ordina­mento presupponeva, come regola immanente, che la società fosse governata secondo il principio del predominio della volontà della maggioranza sostanziale e non formale delle azioni [28]. Della [continua ..]


3. Ratio e ambito di applicazione del divieto.

In un simile contesto, la decisione del legislatore della riforma di mantenere il divieto di emissione di azioni a voto plurimo ha dato luogo a un vivace dibattito, specie alla luce della circostanza che l’ampiezza della formula­zione contenuta nella legge delega non ne imponeva affatto il mantenimento [47]. In particolare, mentre parte della dottrina ha giustificato la scelta del legislatore [48], essa è stata oggetto di numerose critiche da parte di altra dottrina cui, nella migliore ipotesi, è apparsa una soluzione contraddittoria rispetto allo spirito della riforma e un mero omaggio alla tradizione [49], nella peggiore, invece, una soluzione addirittura ipocrita [50]. In particolare, autorevole dottrina giustifica la scelta del legislatore di mantenere il divieto di emettere azioni a voto plurimo sulla base della considerazione che esso sarebbe chiamato a svolgere nel nostro ordinamento tre funzioni specifiche: (i) assicurare la contendibilità del controllo societario, rappresentando peraltro la proporzionalità tra potere e rischio una regola di governance economicamente più efficiente [51]; (ii) garantire la standardizzazione e la confrontabilità delle azioni (sulla base dell’incontestabile rilievo secondo il quale il diritto di voto rappresenta un elemento fondamentale per la determinazione del prezzo delle azioni [52], necessarie perché si possa formare un mercato e così l’azione possa svolgere la propria funzione di strumento idoneo ad attrarre il risparmio diffuso; e (iii) evitare la concentrazione del potere in un’aliquota del capitale ritenuta eccessivamente modesta [53]. I primi due argomenti a giustificazione del mantenimento del divieto di voto plurimo non sembrano pienamente convincenti e, peraltro, sembrerebbero riferirsi prevalentemente alle società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio (non giustificando, quindi, il mantenimento del divieto in relazione alle società che non facciano ricorso a detto mercato [54]. Diverso e più articolato discorso, invece, sembra doversi fare in merito al terzo argomento. Innanzitutto, quanto all’esigenza di assicurare la contendibilità del controllo societario, analogo risultato si sarebbe potuto ottenere attraverso la previsione di una regola di neutralizzazione (c.d. breakthrough) in caso di offerta pubblica di [continua ..]


4. Alcune fattispecie escluse dal divieto.

In sintesi, si è ritenuto, da un lato, di ravvisare la funzione del divieto di emissione di azioni a voto plurimo nella necessità di impedire la concentrazione in maniera stabile e duratura del controllo di una società in capo a una minoranza detentrice di una porzione esigua del capitale sociale e, dall’altro, di ricostruirne la portata nel senso di vietare la creazione di categorie di azioni che attribuiscano più di un voto ciascuna. Alla luce di ciò, dunque, sembra potersi ammettere la validità (nelle società che non fanno ricorso al mercato dei capitali di rischio [78] di un’eventuale clausola statutaria che, ai sensi dell’art. 2351, 3° comma, c.c., prevedesse lo scaglionamento crescente (anziché decrescente) del voto [79]. È, infatti, pacifico in dottrina che la previsione statutaria del voto scalare non dia luogo a una categoria speciale di azioni. E ciò, sia che si aderisca alla tesi largamente dominante secondo cui la clausola di voto scalare non attiene al contenuto intrinseco dell’azione, bensì alla persona dell’azionista e alla sua partecipazione (costituendo non una limitazione del diritto di voto in sé, bensì una sospensione del suo esercizio [80], sia che si accolga un’interessante recente impostazione volta a ricostruire la clausola di voto scalare in chiave oggettiva, ricon­ducendola nel più ampio genus delle condizioni limitative del voto [81]. Non costituendo una categoria speciale di azioni, dunque, la previsione di scaglionamenti crescenti al diritto di voto non rientra nell’ambito di applicazione diretto del divieto di voto plurimo, occorrendo allora verificare se tale divieto possa trovare applicazione in via analogica. Al riguardo, da un lato, il divieto di voto plurimo non è espressione di un principio generale, posto che il principio “un’azione-un voto” è nel nostro ordinamento, come visto, meramente tendenziale e, comunque, non assoluto [82]. Pertanto, non si vedono motivi per cui il divieto in questione dovrebbe essere applicato analogicamente, al di là del suo specifico am­bito di applicazione [83]. Dall’altro lato – e in ogni caso – non sussisterebbe comunque l’eadem ratio, che ne con­sentirebbe l’applicazione analogica: invero, una [continua ..]


NOTE
Fascicolo 4 - 2013