Rivista di Diritto SocietarioISSN 1972-9243 / EISSN 2421-7166
G. Giappichelli Editore

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Esclusione e limitazione del diritto d'opzione nella prospettiva del rapporto di investimento (di Enrico Rino Restelli)


Especially in publicly traded companies, renounceable pre-emptive rights are mainly intended by company law to provide shareholders with protection against inappropriate dilution of the economic value of their investments. Indeed, shareholders can either buy a proportional interest in any future issue of the company’s common stock or sell such rights in the secondary market, thus ‘monetizing’ the dilution they will suffer from non-participating to the new share offerings. However, in order to adequately perform this latter function, pre-emptive rights require an efficient and liquid secondary market. Since this fundamental circumstance rarely occurs in practice, the paper discusses whether (and under which circumstances) the foreseeable illiquidity of rights’ secondary market can be regarded as a restriction of the shareholders’ pre-emption right, thus imposing that new shares are issued at their ‘real’ value (art. 2441, para. 5 and 6 of the Italian Civil Code).

SOMMARIO:

1. La ‘funzione patrimoniale’ del diritto di opzione e l’illiquidità dei mercati secondari - 2. La ‘cessione’ del diritto di opzione quale elemento di fattispecie e la conseguente interpretazione dell’art. 2441, 5° comma, c.c. - 3. Dalla libera negoziabilità al concetto di liquidità: una nuova fattispecie di esclusione del diritto di opzione nelle società aperte - 4. Il prezzo di emissione delle nuove azioni e il ‘valore reale’ della partecipazione azionaria - NOTE


1. La ‘funzione patrimoniale’ del diritto di opzione e l’illiquidità dei mercati secondari

Coerentemente con i risultati raggiunti dalla dottrina già nel vigore del codice di commercio del 1882 [[1]], l’ordinamento societario colloca ora il diritto di opzione al centro della disciplina sull’aumento di capitale, nel tentativo di coordinare le esigenze organizzative della società per azioni con l’interesse dei soci all’integrità del loro investimento [[2]]. A ciascun socio, infatti, è assegnato il diritto di sottoscrivere in via preferenziale le nuove azioni offerte, conservando intatta la proporzione con la quale partecipa al capitale e al patrimonio della società. Qualora però ritenesse di non prendere parte all’aumento di capitale, egli potrebbe comunque cedere a un terzo tale diritto, ottenendo così un indennizzo proporzionato alla diluizione del­l’investimento, senza per questo pregiudicare il buon esito dell’operazione [[3]]: il minor valore dei titoli azionari sarebbe infatti compensato dal ricavato della vendita dei diritti di opzione, il cui valore teorico – almeno nelle società quotate – è calcolato proprio come la differenza tra l’ultimo prezzo registrato dalle azioni prima dell’inizio dell’aumento di capitale e il loro prezzo teorico a seguito del completamento dell’operazione [[4]]. Già da queste prime indicazioni è facile intuire la vocazione spiccatamente “patrimoniale” di tale istituto [[5]]. Da un lato, infatti, la generale attribuzione del diritto d’opzione anche ai titolari di azioni senza voto e ai possessori di obbligazioni convertibili permette di conservare inalterato il valore finanziario dell’investimento persino a discapito degli ‘interessi amministrativi’ dei vecchi soci [[6]]. Nel contempo – escluso o limitato il diritto di opzione – l’obbligo di emettere i nuovi titoli con un sovrapprezzo calcolato «in base al valore del patrimonio netto» [[7]] testimonia come, “fra gli interessi che possono entrare in gioco” in un’operazione di aumento di capitale, “uno solo possa dirsi tutelato con certezza”: quello “dei ‘vecchi soci’, privati del diritto di opzione, a non veder intaccato il valore della loro partecipazione al patrimonio sociale” [[8]]. Il menzionato carattere patrimoniale del diritto di opzione [continua ..]


2. La ‘cessione’ del diritto di opzione quale elemento di fattispecie e la conseguente interpretazione dell’art. 2441, 5° comma, c.c.

Considerando la gravità delle conseguenze che discendono dalla deliberazione di un aumento di capitale a forte sconto, è dunque opportuno indagare più a fondo quali strumenti l’ordinamento predisponga a tutela dei soci in simili occasioni. 2.1. Anzitutto, non sembra potersi ragionevolmente dubitare che anche la ‘cessione’ rappresenti una vera e propria modalità di esercizio dei diritti di opzione, al pari della scelta di sottoscrivere le nuove azioni ad essi sottostanti [[20]]. La funzione patrimoniale assolta dall’art. 2441 c.c. e, soprattutto, il suo valore ermeneutico [[21]] inducono infatti a considerare anche la negoziabilità un vero e proprio elemento di fattispecie [[22]]: solo grazie alla facoltà di vendere i diritti di opzione possono infatti trovare completo accoglimento le richiamate esigenze di tutela della partecipazione azionaria, consentendo al socio che non intende partecipare all’au­mento di capitale di monetizzare il minor valore del proprio investimento [[23]]. Ne discende piuttosto agevolmente che anche la limitazione di tale facoltà, eventualmente deliberata dall’assemblea o dal consiglio di amministrazione, costituisce un’ipotesi di esclusione del diritto di opzione ex art. 2441, 5° comma, c.c. [[24]]. Tale soluzione, oltre a lasciarsi apprezzare per la sua capacità di cogliere il ‘dato reale’ che normalmente caratterizza l’esecuzione di un aumento di capitale nelle società aperte, si dimostra altresì coerente con i principi di diritto civile in materia di proprietà: poiché infatti l’art. 832 c.c. attribuisce al proprietario il potere «di godere e disporre» dei propri beni, anche la limitazione o l’esclusione di quest’ultima facoltà costituisce pur sempre una compressione del ‘diritto di proprietà’ che il socio certamente vanta sui diritti d’opzione assegnatigli [[25]]. Ciò premesso, è indubbio che – almeno in via generale – la società emittente non sia per questo tenuta a garantire l’esistenza di un mercato sufficientemente liquido per i diritti d’opzione, né tantomeno ad assicurare che questi ultimi possano essere ceduti ad un prezzo prossimo al loro valore teorico [[26]]. [continua ..]


3. Dalla libera negoziabilità al concetto di liquidità: una nuova fattispecie di esclusione del diritto di opzione nelle società aperte

Le società che fanno ricorso al mercato dei capitali di rischio, per realizzare la loro ‘funzione tipica’ (id est: combinare le esigenze di stabilità dell’investimento produttivo con il bisogno di pronta liquidabilità della partecipazione azionaria), richiedono la presenza di un mercato secondario sufficientemente liquido, che consenta di superare quelle asimmetrie nelle preferenze temporali che normalmente contraddistinguono il rapporto tra investitori e imprese [[32]]: solo nella prospettiva del disinvestimento possono infatti trovare compimento quelle aspettative che giustificano l’impiego del risparmio privato in attività finanziarie [[33]]. Da quest’an­golo visuale, la liquidità di uno strumento finanziario si pone dunque quale elemento indispensabile per il corretto funzionamento del mercato dei capitali.   3.1. In proposito, si è già detto che, secondo l’impostazione tradizionale, la ‘ce­dibilità’ dei diritti di opzione (ma, in generale, della partecipazione azionaria) si risolve nell’astratta facoltà di trasferire liberamente uno strumento finanziario a un terzo e discende pertanto dall’assenza di preesistenti limiti alla sua circolazione [[34]]. In coerenza con tali premesse, la disciplina di cui all’art. 2355-bis c.c. riflette la dialettica – comune a tutte le società per azioni – tra apertura al mercato ed esigenze di ‘personalizzazione’ e coesione della compagine sociale: l’orizzonte normativo è dunque quello dell’organizzazione societaria e tali regole sono volte anzitutto a disciplinare i rapporti tra i soci e la società [[35]]. Calata però all’interno del mercato finanziario, la prospettiva cambia radicalmente: “la regola della libera trasferibilità delle partecipazioni sociali”, infatti, viene qui “in rilievo soprattutto nell’ottica della liquidità dell’investimento, ossia quale modalità privilegiata attraverso cui può trovare soddisfazione l’interesse individuale a un’agevole monetizzazione del proprio patrimonio mobiliare” [[36]]. La prospettiva dell’investimento, cioè, qualifica e caratterizza la libera trasferibilità delle azioni fino al punto che questa [continua ..]


4. Il prezzo di emissione delle nuove azioni e il ‘valore reale’ della partecipazione azionaria

Le conclusioni appena tracciate – e, soprattutto, il conseguente obbligo di emettere le nuove azioni con un congruo sovrapprezzo – sembrano, in prima battuta, escludere la stessa legittimità di un aumento di capitale con rilevanti effetti diluitivi, realizzato appunto attraverso l’offerta di azioni a forte sconto. Come infatti previsto dall’ultima parte dell’art. 2441, 6° comma, c.c., il prezzo di emissione delle nuove azioni deve essere determinato «in base al valore del patrimonio netto, tenendo conto, per le azioni quotate in mercati regolamentati, anche dell’andamento delle quotazioni nell’ultimo semestre». Secondo quanto comunemente osservato in dottrina, tale norma vuole garantire che le nuove azioni “siano collocate a un prezzo corrispondente al [loro] valore effettivo”, al fine di assicurare un’adeguata “tutela della posizione patrimoniale del socio” [[51]]: in questa prospettiva, il riferimento al valore ‘effettivo’ o ‘reale’ segnala all’interprete l’obiettivo cui il processo di valutazione degli amministratori deve tendere, coerentemente con la funzione svolta dal sovrapprezzo all’interno della disciplina sul diritto di opzione [[52]]. Ciò premesso, si deve però segnalare che tale valore rappresenta una semplice formula, il cui contenuto precettivo è destinato a cambiare in relazione allo specifico contesto nel quale, di volta in volta, essa è calata: non è infatti possibile pensare a tale concetto in senso assoluto, ma il valore reale di un bene non può che essere determinato per relationem, in funzione delle peculiarità del caso concreto [[53]]. Non a caso, infatti, spetta sempre agli amministratori selezionare «i criteri adottati per la determinazione del prezzo» delle azioni (art. 2441, 6° comma, prima parte, c.c.) [[54]], il che induce a considerare i parametri indicati dallo stesso art. 2441 c.c. come semplici vincoli all’esercizio della discrezionalità gestoria [[55]]. A questo scopo, il riferimento normativo al valore patrimoniale della società e all’andamento dei corsi azionari costituisce un’indicazione indubbiamente utile, ma non ancora sufficiente. Anzitutto, l’assenza di criteri con i quali determinare la consistenza del patrimonio netto riduce [continua ..]


NOTE