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Esclusione e limitazione del diritto d'opzione nella prospettiva del rapporto di investimento

Enrico Rino Restelli

Especially in publicly traded companies, renounceable pre-emptive rights are mainly intended by company law to provide shareholders with protection against inappropriate dilution of the economic value of their investments. Indeed, shareholders can either buy a proportional interest in any future issue of the company’s common stock or sell such rights in the secondary market, thus ‘monetizing’ the dilution they will suffer from non-participating to the new share offerings. However, in order to adequately perform this latter function, pre-emptive rights require an efficient and liquid secondary market. Since this fundamental circumstance rarely occurs in practice, the paper discusses whether (and under which circumstances) the foreseeable illiquidity of rights’ secondary market can be regarded as a restriction of the shareholders’ pre-emption right, thus imposing that new shares are issued at their ‘real’ value (art. 2441, para. 5 and 6 of the Italian Civil Code).

Sommario:

1. La ‘funzione patrimoniale’ del diritto di opzione e l’illiquidità dei mercati secondari - 2. La ‘cessione’ del diritto di opzione quale elemento di fattispecie e la conseguente interpretazione dell’art. 2441, 5° comma, c.c. - 3. Dalla libera negoziabilità al concetto di liquidità: una nuova fattispecie di esclusione del diritto di opzione nelle società aperte - 4. Il prezzo di emissione delle nuove azioni e il ‘valore reale’ della partecipazione azionaria - NOTE


1. La ‘funzione patrimoniale’ del diritto di opzione e l’illiquidità dei mercati secondari

Coerentemente con i risultati raggiunti dalla dottrina già nel vigore del codice di commercio del 1882 [[1]], l’ordinamento societario colloca ora il diritto di opzione al centro della disciplina sull’aumento di capitale, nel tentativo di coordinare le esigenze organizzative della società per azioni con l’interesse dei soci all’integrità del loro investimento [[2]]. A ciascun socio, infatti, è assegnato il diritto di sottoscrivere in via preferenziale le nuove azioni offerte, conservando intatta la proporzione con la quale partecipa al capitale e al patrimonio della società. Qualora però ritenesse di non prendere parte all’aumento di capitale, egli potrebbe comunque cedere a un terzo tale diritto, ottenendo così un indennizzo proporzionato alla diluizione del­l’investimento, senza per questo pregiudicare il buon esito dell’operazione [[3]]: il minor valore dei titoli azionari sarebbe infatti compensato dal ricavato della vendita dei diritti di opzione, il cui valore teorico – almeno nelle società quotate – è calcolato proprio come la differenza tra l’ultimo prezzo registrato dalle azioni prima dell’inizio dell’aumento di capitale e il loro prezzo teorico a seguito del completamento dell’operazione [[4]]. Già da queste prime indicazioni è facile intuire la vocazione spiccatamente [continua ..]

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2. La ‘cessione’ del diritto di opzione quale elemento di fattispecie e la conseguente interpretazione dell’art. 2441, 5° comma, c.c.

Considerando la gravità delle conseguenze che discendono dalla deliberazione di un aumento di capitale a forte sconto, è dunque opportuno indagare più a fondo quali strumenti l’ordinamento predisponga a tutela dei soci in simili occasioni. 2.1. Anzitutto, non sembra potersi ragionevolmente dubitare che anche la ‘cessione’ rappresenti una vera e propria modalità di esercizio dei diritti di opzione, al pari della scelta di sottoscrivere le nuove azioni ad essi sottostanti [[20]]. La funzione patrimoniale assolta dall’art. 2441 c.c. e, soprattutto, il suo valore ermeneutico [[21]] inducono infatti a considerare anche la negoziabilità un vero e proprio elemento di fattispecie [[22]]: solo grazie alla facoltà di vendere i diritti di opzione possono infatti trovare completo accoglimento le richiamate esigenze di tutela della partecipazione azionaria, consentendo al socio che non intende partecipare all’au­mento di capitale di monetizzare il minor valore del proprio investimento [[23]]. Ne discende piuttosto agevolmente che anche la limitazione di tale facoltà, eventualmente deliberata dall’assemblea o dal consiglio di amministrazione, costituisce un’ipotesi di esclusione del diritto di opzione ex art. 2441, 5° comma, c.c. [[24]]. Tale soluzione, oltre a lasciarsi apprezzare per la sua capacità di [continua ..]

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3. Dalla libera negoziabilità al concetto di liquidità: una nuova fattispecie di esclusione del diritto di opzione nelle società aperte

Le società che fanno ricorso al mercato dei capitali di rischio, per realizzare la loro ‘funzione tipica’ (id est: combinare le esigenze di stabilità dell’investimento produttivo con il bisogno di pronta liquidabilità della partecipazione azionaria), richiedono la presenza di un mercato secondario sufficientemente liquido, che consenta di superare quelle asimmetrie nelle preferenze temporali che normalmente contraddistinguono il rapporto tra investitori e imprese [[32]]: solo nella prospettiva del disinvestimento possono infatti trovare compimento quelle aspettative che giustificano l’impiego del risparmio privato in attività finanziarie [[33]]. Da quest’an­golo visuale, la liquidità di uno strumento finanziario si pone dunque quale elemento indispensabile per il corretto funzionamento del mercato dei capitali.   3.1. In proposito, si è già detto che, secondo l’impostazione tradizionale, la ‘ce­dibilità’ dei diritti di opzione (ma, in generale, della partecipazione azionaria) si risolve nell’astratta facoltà di trasferire liberamente uno strumento finanziario a un terzo e discende pertanto dall’assenza di preesistenti limiti alla sua circolazione [[34]]. In coerenza con tali premesse, la disciplina di cui all’art. 2355-bis c.c. riflette la dialettica – comune a tutte le [continua ..]

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4. Il prezzo di emissione delle nuove azioni e il ‘valore reale’ della partecipazione azionaria

Le conclusioni appena tracciate – e, soprattutto, il conseguente obbligo di emettere le nuove azioni con un congruo sovrapprezzo – sembrano, in prima battuta, escludere la stessa legittimità di un aumento di capitale con rilevanti effetti diluitivi, realizzato appunto attraverso l’offerta di azioni a forte sconto. Come infatti previsto dall’ultima parte dell’art. 2441, 6° comma, c.c., il prezzo di emissione delle nuove azioni deve essere determinato «in base al valore del patrimonio netto, tenendo conto, per le azioni quotate in mercati regolamentati, anche dell’andamento delle quotazioni nell’ultimo semestre». Secondo quanto comunemente osservato in dottrina, tale norma vuole garantire che le nuove azioni “siano collocate a un prezzo corrispondente al [loro] valore effettivo”, al fine di assicurare un’adeguata “tutela della posizione patrimoniale del socio” [[51]]: in questa prospettiva, il riferimento al valore ‘effettivo’ o ‘reale’ segnala all’interprete l’obiettivo cui il processo di valutazione degli amministratori deve tendere, coerentemente con la funzione svolta dal sovrapprezzo all’interno della disciplina sul diritto di opzione [[52]]. Ciò premesso, si deve però segnalare che tale valore rappresenta una semplice formula, il cui contenuto precettivo è destinato a cambiare in relazione allo [continua ..]

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NOTE

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