Rivista di Diritto SocietarioISSN 1972-9243 / EISSN 2421-7166
G. Giappichelli Editore

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Note sulla problematica rilevanza penale dei «patrimoni destinati ad uno specifico affare» (di Gianfranco Martiello)


SOMMARIO:

1. Patrimoni destinati e diritto penale societario: rilievi metodologici - 2. Cenni alla disciplina degli artt. 2447-bis ss. c.c. - 3. Correlazioni strumentali tra capitale sociale e destinazione patrimoniale: riflessi penali - 3.1. Gestione patrimoniale ed «Indebita restituzione dei conferimenti» - 3.2. Proventi del patrimonio destinato ed «Illegale ripartizione degli utili e delle riserve» - 3.3. Destinazione patrimoniale ed «Operazioni in pregiudizio dei creditori» - 4. Patrimoni destinati e tutela dei creditori e dei terzi finanziatori: un’istanza disattesa? - NOTE


1. Patrimoni destinati e diritto penale societario: rilievi metodologici

Come noto, per mezzo degli artt. 2447-bis ss. c.c. il legislatore del duemilatré ha introdotto nello statuto civile delle S.p.A. la figura dei «patrimoni destinati ad uno specifico affare», senza peraltro in nulla modificare la correlata normativa sanzionatoria contenuta nel Titolo XI, libro V del codice civile, pur avendone forse in precedenza avvertito la necessità [1]. Da qui, lo stimolo ad indagare l’im­patto che la suddetta figura potrebbe produrre in materia penale societaria, ed in particolare sul­l’ambito applicativo delle fattispecie poste a tutela del capitale sociale [2]. Quest’ultimo ambito normativo, infatti, costituisce probabilmente il terreno più fertile per innestare siffatta indagine, poiché – come emergerà – maggiori appaiono i suoi potenziali punti di contatto con l’istituto dei patrimoni destinati [3]. Per vero, si potrebbe ritenere che, mai alludendo la disciplina di questi ultimi ai concetti di «utile», di «conferimento» e di «capitale», qualsiasi tentativo di ivi innestare le fattispecie poc’anzi richiamate si risolva in una analogia in malam partem, notoriamente vietata in sede penale. Sennonché, non è da escludere, anzitutto, che lo studio della suddetta disciplina civile possa evidenziare convergenze tra capitale sociale e patrimoni destinati tali da ripercuotersi comunque sulla dinamica applicativa delle incriminazioni poste espressamente a salvaguardia del primo. D’altro canto, solo l’analisi del fenomeno della destinazione patrimoniale può aiutare a collocare – quanto meno relativamente a tale ambito – il reale confine tra analogia ed interpretazione estensiva [4]: confine, questo, che seppur nettamente distinguibile di principio [5], tende a scolorire in sede applicativa, tanto più là dove si rilevino vere o presunte lacune «derivate», formatesi cioè a causa di fenomeni emersi dopo l’emanazione della legge penale [6]. Valga per tutte, proprio in campo societario, la vicenda dei c.d. «versamenti in conto capitale», ossia degli apporti spontanei di risorse economiche da parte dei soci, causalmente giustificati o dalla necessità di coprire improvvise perdite ovvero dalla volontà di finanziare la società, ai quali non corrisponde un formale aumento di [continua ..]


2. Cenni alla disciplina degli artt. 2447-bis ss. c.c.

L’art. 2447-bis c.c. distingue, da un lato, la figura dei patrimoni c.d. «finanziari», che si sostanziano in un contratto con il quale la società richiede ai terzi od ai soci determinate risorse al precipuo fine di compiere uno «specifico affare», i cui proventi (ma non solo) serviranno per restituire ciò che si è inizialmente domandato, con l’aggiunta – sperata – di un certo aggio [2447-bis, 1° comma, lett. b), c.c.]; dall’altro, la figura dei patrimoni c.d. «industriali» (ovvero «operativi»), che consentono alla S.p.A. di scorporare dalla massa del proprio patrimonio alcuni beni da destinare al compimento di specifici affari, con la certezza che, rispettando determinate condizioni, l’operazione sarà opponibile sia ai creditori sociali che a quelli del patrimonio destinato. Peraltro, l’operazione può trasformarsi anche in un investimento per i terzi – e quindi in un finanziamento per la società – dato che l’art. 2447-ter, 1° comma, lett. d) ed e), c.c. prevede che essi possano partecipare all’affare con propri apporti, a fronte dei quali è anche possibile emettere «strumenti finanziari». Come ben si comprende, pur condividendo alcune problematiche di fondo [10], la figura del patrimonio «finanziario» risulta autonoma rispetto alla seconda, risolvendosi alla fine in un negozio di «finanziamento destinato» [11], cui peraltro il legislatore dedica una sola precipua disposizione: l’art. 2447-decies c.c. Diversamente, la destinazione «industriale» consiste in una operazione che, nella sostanza, può equipararsi ad una scissione «parziale» ed «endosocietaria», pur essendone in primis diverso il regime della responsabilità verso i creditori [12]. Sembrano quindi emergere tre distinte fattispecie: (A) quella del patrimonio industriale costituito esclusivamente da beni sociali [art. 2447-bis, 1° comma, lett. a), c.c.]; (B) quella del patrimonio industriale formato anche con apporti di terzi, documentati o meno dall’emissione di strumenti finanziari [art. 2447-ter, 1° comma, lett. d) ed e), c.c.]; (C) quella del patrimonio finanziario [art. 2447-bis, 1° comma, lett. b), c.c.]. Orbene, ciò che qui interessa comprendere è, in primo luogo, quali siano le [continua ..]


3. Correlazioni strumentali tra capitale sociale e destinazione patrimoniale: riflessi penali

I risultati evidenziati dalla sommaria analisi sopra condotta si traducono in altrettanti interrogativi sul piano penale, ove si è chiamati a verificare, rispetto alla nuova realtà normativa civile, anzitutto i limiti di continenza delle odierne fattispecie poste a tutela del capitale sociale. In tale prospettiva, e muovendo dalle problematiche già evidenziate dalla più sensibile dottrina [25], occorre in questa sede segnatamente chiedersi: (I) se le risorse costitutive del patrimonio destinato possano considerarsi alla stregua dei «conferimenti» rilevanti ai sensi dell’art. 2626 c.c.; (II) se i proventi che i suddetti patrimoni destinati eventualmente producono possano valutarsi quali «utili» cui allude l’art. 2627 c.c.; (III) se, nell’ambito qui in rilievo, sussistano possibilità applicative quanto meno per la più duttile fattispecie dell’art. 2629 c.c.


3.1. Gestione patrimoniale ed «Indebita restituzione dei conferimenti»

Da indagare è quindi anzitutto la possibile rilevanza penale del comportamento degli amministratori i quali, fuori dai casi di legittimo trasferimento del patrimonio destinato, restituiscono, anche simulatamene, i beni alla società o gli apporti ai terzi, e ciò, ovviamente, nella prospettiva di tutela propria dell’art. 2626 c.c. In realtà, anche chi ha promosso l’indagine ha poi riconosciuto l’inap­plicabilità di tale incriminazione al caso di specie, rilevando esattamente come la restituzione dei conferimenti ai soci sia fenomeno ben diverso «da quello che si può verificare nell’ambito del patrimonio destinato, ove si restituiscono beni alla società e non conferimenti ai soci», ed aggiungendo che, in ogni caso, l’art. 2626 c.c. «prende in considerazione la restituzione del capitale sociale, mentre la destinazione ad uno specifico affare […] riguarda il patrimonio sociale» [26]. Muovendo proprio dalle obiezioni sopra prospettate, giova qui precisare che prospettive applicative del delitto in discorso potrebbero forse dischiudersi là dove il patrimonio destinato risultasse essere stato costituito con parte del capitale sociale, come già avvertito; in tale contesto, la conferenza dell’art. 2626 c.c. nel caso di specie emergerebbe ictu oculi. Nondimeno, sembra necessario ribadire che, in considerazione della incontrovertibilità del dato normativo, la fattispecie potrebbe teoricamente ricorrere soltanto ove (o nel momento in cui) l’eventuale restituzione del capitale – e quindi dei conferimenti – finalizzato al compimento dello specifico affare avesse come destinatari direttamente i soci e non già l’immediato apportante, ossia la società titolare del patrimonio separato.


3.2. Proventi del patrimonio destinato ed «Illegale ripartizione degli utili e delle riserve»

Parte della dottrina si è interrogata sulla possibilità di ricondurre nei rigori dell’art. 2627 c.c. la distribuzione della ricchezza proveniente dalla gestione dei patrimoni destinati, là dove i primi non risultassero effettivamente conseguiti in base al rendiconto finale dell’art. 2447-novies c.c. Si è così precisato che l’applicazione di detta fattispecie potrebbe essere giustificata nella misura in cui, per un verso, il patrimonio [id est: il patrimonio industriale] fosse stato costituito «con il capitale sociale», e quindi – si specifica – senza apporti di terzi, e, per l’altro, le eventuali perdite del primo «non [fossero] sopravanzate dal complesso degli “altri” utili sociali» [27]. Tale conclusione, in sé condivisibile, richiede nondimeno qualche precisazione. Al riguardo, sembra possibile non circoscrivere l’ipotesi di lavoro alla sola distribuzione «finale» dei proventi dell’affare, cui allude il richiamato art. 2447-novies c.c. Invero, se, come pare di intendere, non vi è difficoltà a riconoscere rilevanza penale al provento che, nell’ipotesi prospettata, il patrimonio può evidenziare al momento conclusivo dell’affare, non sembra peregrino dirigere l’attenzione anche verso la fase anteriore di gestione del patrimonio stesso, durante la quale, come già avvertito, sembra difatti possibile ammettere la distribuzione di proventi per così dire «intermedi». In tale prospettiva, premessa la tendenziale applicabilità della contravvenzione in discorso nel caso in cui la natura fittizia del suddetto provento fosse «originaria», si tratta qui di evidenziare come il risultato economico prodotto dal patrimonio separato e l’utile scaturente dalla gestione della società interagiscono vicendevolmente ai fini dell’eventuale loro legittima distribuzione, posto che, come accennato, detratta la quota dovuta agli eventuali terzi finanziatori, gli utili prodotti dal patrimonio destinato sembrerebbero poi entrare nella disponibilità della società e quindi sommarsi algebricamente agli utili ed alle perdite «sociali». Prescindendo dall’ipotesi «estrema» in cui sia la società che la gestione separata risultassero in perdita, si possono quindi immaginare le seguenti situazioni [continua ..]


3.3. Destinazione patrimoniale ed «Operazioni in pregiudizio dei creditori»

Chiamata ad individuare le «disposizioni di legge a tutela dei creditori» cui allude l’art. 2629 c.c., parte della dottrina ha osservato come la previsione della facoltà di opposizione riconosciuta ai creditori costituisca senz’altro un segnale per l’identificazione di tali «norme cautelari» [37]. In tale ottica, non può sfuggire che in effetti l’art. 2447-quater, 2° comma, c.c. prevede che, entro due mesi dall’iscrizione nel registro delle imprese della delibera di destinazione patrimoniale, i creditori sociali possano fare opposizione. Sotto questo profilo, quindi, sembrerebbe integrata una prima condizione per sostenere prima facie l’applicabilità della fattispecie. Tuttavia, è lo stesso art. 2629 c.c. a limitare la propria area operativa alla riduzione del capitale, alla fusione ed alla scissione, tanto che – si sottolinea – è soltanto in seno alla disciplina civile di tali operazioni che debbono ricercarsi le «norme cautelari» di cui si diceva [38]. In tale prospettiva, l’applicazione dell’art. 2629 c.c. agli amministratori che dovessero realizzare una destinazione patrimoniale in frode ai creditori troverebbe un evidente ostacolo in ciò che tale operazione non rientra tra quelle noverate dalla disposizione incriminatrice. Nondimeno, già si è detto come non manca chi, avuto riguardo alla dimensione sostanziale del fenomeno, scorge in nuce alla formazione del patrimonio operativo una forma specifica di scissione. Del resto, che, similmente alla scissione, l’operazione de qua risulti potenzialmente pregiudizievole per i creditori sociali è evidenziato non soltanto dall’art. 2447-quinquies, 1° comma, c.c., che preclude loro la possibilità di fare valere le ragioni di credito sul patrimonio destinato, ma anche da quella ulteriore trama di limiti e cautele prevista dalla legge civile [39]. Se quindi non v’è dubbio che, da un canto, la destinazione patrimoniale, al pari della scissione, può in potenza danneggiare i creditori sociali, palesando analoghe esigenza di tutela, e che, dall’altro, esistono regole «cautelari» a tutela di tali soggetti, è anche vero, però, che al mancato coordinamento tra la disciplina penale e quella civile sembra problematico rimediare in via interpretativa, posto che il richiamo [continua ..]


4. Patrimoni destinati e tutela dei creditori e dei terzi finanziatori: un’istanza disattesa?

Le ipotesi applicative degli artt. 2626 e 2627 c.c. dianzi prospettate muovevano dal presupposto che il patrimonio destinato fosse costituito con parte del capitale sociale, il che rendeva tali incriminazioni potenzialmente conferenti all’ambito che qui rileva. La questione ermeneutica si manifesta invece in tutta la sua drammaticità ove il «patrimonio» risulti formato, com’è pure possibile, da risorse diverse dal capitale sociale, siano esse appartenenti alla società o/e a terzi: eventualità, questa, alla cui luce occorre ora riconsiderare, col medesimo ordine espositivo, le suddette ipotesi operative. (I) Di un’applicazione dell’art. 2626 c.c. alle «indebite restituzioni» che gli amministratori effettuassero nella gestione dei patrimoni destinati è invero difficile parlare, date le persuasive ragioni che vi si oppongono. Sul punto, basti richiamare la già esposta obiezione che rilevava come la restituzione di conferimenti – cui non a caso la norma allude nel contesto di una «riduzione del capitale sociale» – sia fenomeno assai diverso dall’eventuale illegittima restituzione ai partecipanti all’affare di ciò che essi apportarono. Tale asserzione è infatti da condividere. Lo è certamente alla luce dell’imprescindibile rinvio alla normativa civile, per la quale sussiste un indissolubile nesso tra «conferimento» e «capitale sociale», come può agevolmente desumersi, ad esempio, dagli artt. 2329, n. 2, 2339, n. 2, 2346, 5° comma, 2342 e 2343 c.c., tanto che in dottrina si rileva come, nell’ambito del genus «apporti», il termine «conferimento» designi precipuamente i soli apporti imputati a capitale [43]. Né residuano vieppiù incertezze a fronte dell’inequivoco riferimento che la disposizione incriminatrice opera al «capitale sociale», ciò che conferma la prospettiva di tutela nella quale il delitto in parola indiscutibilmente si muove. II) A soluzioni in parte diverse sembrerebbe prima facie poter giungere la questione relativa all’applicabilità dell’art. 2627 c.c. ai patrimoni destinati costituiti da quote disponibili del patrimonio netto o/e da risorse di terzi finanziatori, e ciò considerando sia il caso in cui il provento sia convogliato nell’utile sociale, e [continua ..]


NOTE
Fascicolo 4 - 2007