A commento di una recente ordinanza del Tribunale di Milano, il contributo analizza la praticabilità di una soluzione interpretativa che ammetta l’impugnabilità delle delibere del Collegio sindacale. Esaminando la nozione di deliberazione sociale e l’evoluzione giurisprudenziale che ha condotto all’estensione alle delibere consiliari della disciplina dell’impugnabilità assembleare, l’indagine tenta di enucleare le ragioni giuridiche che giustifichino l’esistenza di un principio di generale contestabilità delle deliberazioni di tutti gli organi sociali.
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1. Il caso - 2. Cenni in tema di generale impugnabilità delle deliberazioni degli organi sociali - 3. Verso la sindacabilità delle deliberazioni del Collegio sindacale: estensione dell’impugnativa ex art. 2377 c.c. alle delibere consiliari - 4. Conclusioni - NOTE
La pronuncia resa dal Tribunale di Milano in data 23 aprile 2018 offre interessanti spunti di riflessione, anzitutto, in tema di compatibilità tra meccanismi di sostituzione integrale e parziale dell’organo amministrativo, in presenza della cessazione dalla carica, anche differita, della maggioranza degli amministratori di una società in cui operi una clausola simul stabunt simul cadent; e, in secondo luogo, con accenti particolarmente innovativi, in materia di impugnabilità delle delibere del Collegio sindacale, ambito quest’ultimo su cui si focalizzerà qui l’attenzione. Nella fattispecie oggetto di esame giudiziale, il C.d.A. di TIM S.p.a. impugnava la delibera del Collegio sindacale con cui quest’ultimo, in applicazione dell’art. 126-bis T.U.F. e su richiesta di alcuni soci, integrava l’ordine del giorno della convocanda assemblea; e, contestualmente, ricorreva in via cautelare per ottenerne la sospensione degli effetti. Il C.d.A., nello specifico, contestava la non integrabilità dell’ordine del giorno ad opera del Collegio sindacale una volta che tale integrazione – avente ad oggetto la revoca degli amministratori già dimessisi, sebbene con efficacia differita, in sede di una precedente deliberazione del C.d.A. – era stata motivatamente rifiutata dallo stesso C.d.A., altresì rimarcando l’impossibilità di sostituzione della maggioranza degli amministratori una volta che fosse operante la clausola simul stabunt simul cadent. Il Collegio sindacale, al contrario, giustificava il proprio intervento suppletivo sostenendo l’inapplicabilità della summenzionata clausola in dipendenza di dimissioni palesemente abusive e sottolineando come da un comportamento illegittimo non potesse scaturire alcun effetto giuridico positivo [1]: il collegio, infine, ribadiva l’inammissibilità dell’impugnazione della delibera d’integrazione dell’ordine del giorno, sia in ragione dell’assenza di una specifica norma che la preveda, sia in ragione della sua natura meramente prodromica allo svolgimento dell’assemblea [2]. Il Tribunale accoglieva la richiesta cautelare di sospensione della delibera d’integrazione dell’ordine del giorno assunta dal Collegio sindacale, giustificando tale decisione: a) anzitutto, alla luce del principio di [continua ..]
L’impugnabilità delle deliberazioni del collegio sindacale è giustificata, dalla pronuncia in commento, con l’osservazione per cui tutte le deliberazioni di organi collegiali sono sottoposte al controllo giurisdizionale [3], così allineandosi a quegli orientamenti che, dopo aver ripensato la nozione di deliberazione, ne hanno predicato – ove viziata – l’impugnabilità anche al di fuori dei limiti testualmente fissati dalla legge. Alla base di tali posizioni, come è noto, vi è l’abbandono della concezione “negoziale” [4] di deliberazione, che la includeva entro la categoria dogmatica delle c.d. combinazioni non contrattuali di atti [5], e il suo inquadramento quale prodotto di una precisa sequenza procedimentale [6] – variabile secondo gli organi e i tipi societari [7] –, assunta a termine di valutazione per l’attribuzione di valore giuridico (l’effetto cui s’intende pervenire) al comportamento posto dal soggetto deliberante. La deliberazione sociale assume, in quest’ottica, la fisionomia di meccanismo di produzione dell’azione degli enti collettivi [8], divenendo la modalità necessitata tramite cui, con riferimento alle società di capitali, ciascun organo sociale cura la realizzazione dello scopo associativo nell’ambito delle proprie competenze e, di conseguenza, vincola la società alle decisioni prese; ed assurgendo così – a fronte del rapporto di immedesimazione organica che si configura tra organi e società [9] – a strumento giuridico di determinazione del comportamento dell’ente. Su tali premesse, il potere condizionante di ogni deliberazione è subordinato al rispetto della legge e delle norme organizzative di cui l’ente si è dotato (tra le quali figura il procedimento di formazione della delibera [10]), onde poter essere ad esso riferibile e vincolare così la società [11]. Mentre tutte le delibere non conformi alle regole legali e statutarie saranno considerate invalide e dovranno essere appositamente eliminate: la rimozione delle delibere invalide, difatti, conseguirà all’esperimento di un apposito giudizio d’impugnazione in cui sia dichiarata la loro non conformità, in tal modo vincendosi la presunzione di [continua ..]
Nel solco del ragionamento ora richiamato, la sentenza in commento postula l’esistenza di “un principio generale di sindacabilità delle deliberazioni di tutti gli organi sociali per contrarietà alla legge o all’atto costitutivo”, assunto da cui ricava la base per il riconoscimento del diritto all’impugnazione delle delibere del Collegio sindacale. L’emersione di siffatto principio è figlia della progressiva estensione della portata normativa dell’art. 2377 c.c. – unica norma che, anteriormente al 2003, consentiva esplicitamente l’impugnazione delle delibere assembleari –, operata prima nei confronti delle delibere consiliari e ora, per la prima volta, anche con riferimento a quelle del Collegio sindacale. A tal proposito, è opportuna una sommaria ricognizione delle tappe che hanno condotto all’estensione dell’impugnabilità ex art. 2377 c.c. alle delibere consiliari, in modo da fornire un ulteriore supporto a sostegno dello sviluppo interpretativo – ad avviso di chi scrive, almeno parzialmente, corretto – proposto dal Tribunale, nonché alle considerazioni precedentemente svolte. Come è noto, nel sistema normativo anteriore alla riforma delle società di capitali, non era prevista una generale impugnabilità delle deliberazioni consiliari, essendo la stessa stata ammessa – a favore dei soli amministratori assenti o dissenzienti ed ai sindaci – unicamente nel caso di delibere assunte con la partecipazione determinante di un amministratore in conflitto di interessi e astrattamente dannose per la società (art. 2391 c.c. v.f.). Dinanzi ad un primo tentativo di estendere l’ambito applicativo dell’art. 2377 c.c. alle deliberazioni consiliari [20], la giurisprudenza di legittimità, conformemente alla dottrina maggioritaria [21], aveva assunto un atteggiamento scettico [22], ammonendo che le norme di cui agli artt. 2377 e 2391 c.c. rappresentassero una disciplina eccezionale, in quanto tale (ex art. 14 preleggi) non suscettibile di interpretazioni analogiche [23]: contro una deliberazione consiliare contrastante con la legge o con l’atto costitutivo, e non impugnabile ai sensi dell’art. 2391 c.c., non sarebbero perciò residuati altri strumenti di reazione diretta, diversi: a) dalla proposizione delle [continua ..]
Emerge da quanto sin qui illustrato come la decisione di ammettere l’impugnabilità delle delibere del Collegio sindacale non sia giustificata solo da argomentazioni di tipo sistematico (sulla base di un principio di generale sindacabilità delle delibere degli organi sociali per contrarietà alla legge o all’atto costitutivo [33]), ma possa predicarsi anche in virtù dell’utilizzo analogico, opportunamente soppesato [34], di quegli argomenti che la giurisprudenza di legittimità aveva già posto a fondamento dell’estensione alle delibere consiliari della disciplina di cui all’art. 2377 c.c. Meno comprensibili appaiono, in questa prospettiva, le ragioni per le quali il Tribunale di Milano, pur affermando inizialmente l’esistenza di tale (generale) principio di impugnabilità delle deliberazioni di tutti gli organi sociali, ne limiti subito dopo l’applicabilità alle sole delibere del Collegio sindacale che siano produttive di effetti direttamente incisivi sull’organizzazione societaria o delle posizioni dei singoli soci (con relativa esclusione delle delibere espressione della tipica attività di controllo dell’organo), giungendo a legittimare l’estensione interpretativa degli artt. 2377 e 2388 c.c. solamente in virtù della natura gestoria della delibera in oggetto, ritenuta sostitutiva del potere del Consiglio di Amministrazione e, quindi, in continuum con la sua attività. Con una limitazione che potrebbe, forse, essere superata, sviluppando la riflessione sull’argomento [35] a partire dalle stesse innovative affermazioni di principio, pur condivisibilmente avanzate dalla decisione in commento.